Wiliam Owen Roberts, 1991 SEREN

Wiliam Owen Roberts, 1991

SEREN

Poetry Wales Press Ltd.

Traduzione: Marcello della Corte


Fu il bambino più piccolino a vedere per primo Chwilen Bwm, Chwilen il Maggiolino, venire verso la chiesa con un sacco sulle spalle.

‘Allora, abbiamo un po’ di battaglia li’ dentro, eh?’

‘Speriamo che la canaglia ce l’abbia fatta stavolta’

Einion Fychan, il giovane lebbroso, si trascinò sul posto, ma due serve della gleba lo spinsero via con i forconi di legno. Allora il ficcanaso si fece più in là, e si arrampicò su di un masso un po’ discosto per sbirciare indisturbato la scena. Dei bambini gli lanciarono contro dei torsoli di mela. Lui si chinò a raccoglierli, ma temendo di perdere l’equilibrio ed essere notato, ci rinunciò, fingendosi indifferente. Ben presto i bambini, presi dalla noia, non gli badarono più e si rivolsero altrove, lasciandolo in pace.

Cwilen Brown rovesciò il contenuto del sacco a terra digrignando i denti con un gigno dolente e melenso.

‘Gesu’ mio, che mal di denti! Sono giorni che mi tormenta...’

Si era nel periodo dell’anno in cui si svolgeva la più popolare contesa cittadina, lungo il muro occidentale della chiesa. Un recinto di paletti e canne stato approntato alla men peggio e adesso, verso la fine del giorno, la folla ci si andava ammassando. Tra tutti, erano proprio i servi della gleba che da mesi aspettavano questo giorno con particolare ansia e correva voce che i concorrenti più ambiziosi si fossero allenati in segreto. A quanto si diceva, una notte una giovane serva della gleba, mentre radunava le gallinelle dal bosco presso il proprio tugurio, aveva scoperto tracce di una simile staccionata celata nel sottobosco.

Hwch Ddu, una delle giovani serve della gleba, compativa Chwilen Bwm.

‘Meglio bruciare all’inferno che uno di questi mal di denti. Io l’ho avuto l’altra primavera, era terribile...’

Tutti si fecero il segno della croce. Gwythwches, una vecchia che attendeva la sua damigella afferrò Chwilen Bwm per il polso.

‘Dai, facci dare un’occhiata’

‘Eh, quanta fretta, donna. Stai calma.’

Gwythwches balzò verso il sacco e gli diede uno strattone’

‘Benedetto il piscio di San Bartolomeo! Ma come, per uno spettacolo cosi’ vai trovare un esemplare rognoso e tutt’ossa come questo?

Chwilen Bwm sputò furibondo.

‘Ho un saporaccio in questa dannata bocca. Come se avessi leccato la lingua d’un cane per tre giorni di seguito’

‘Si, magari l’avessi fatto adesso saresti sano come un pesce’

‘Cosi’ si dice’ e uno dei servi si segnò

Chwilen Bwm si appoggiò al muro della chiesa e digrignò i denti fino a rendersi gli occhi lacrimosi. Era un dolore peggiore del purgatorio. Fece scorrere la lingua tra i denti e assaporò il pus, acre come lo stomaco di una serpe. Si grattò il piede sul suolo con forza, affondando l’alluce nella terra. Un verro passò di corsa, squittendo, inseguito da certi bambini, figli dei servi della gleba, che cercavano di salirgli in groppa.

‘Ehi, Chwilen Bwm, andiamo! Datti una mossa. Strillò una serva.

‘Speriamo che sia meglio dell’altr’anno’

‘Gliel’hai affilati i denti, eh?’

‘Chiudi quella boccaccia, stupida megera’

Chwilen Bwm gettò uno sguardo verso le facce attraverso le lacrime, torcendo gli occhi dall’uno all’altro, con quelle facce grigie da mezzi morti di fame, avidi di emozioni nelle loro vite abiette...Un bambinello gli scippò il sacco, tirò affannosamente i cordoni che lo chiudevano e cominciò ad esplorarne l’interno. Per un attimo si irrigidí. Quindi, con un sorriso ne tirò fuori un gatto nero tenendolo per la collottola con fare trionfante al di sopra della propria testa. Guardò verso la marea di volti sorpresi, tese l’orecchio al crescendo di mormorii e sussurri provenienti dalla folla. Quindi con un sol balzo scavalcò la staccionata e lasciò cadere il gatto a terra.

Un uomo vecchissimo, vecchio al punto che nessuno osava neanche cercare di indovinarne l’età, gettò la propria roba sul terreno. Il silenzio calò sulla folla non appena egli sollevò il pugno che stringeva un fascio di pagliuzze.

‘Solo i sei con le paglie più corte potranno combattere’ disse con voce tremula

Poco dopo, sei uomini dal fare sguaiato si portarono tra uno spintone e l’altro dinanzi allo steccato, mentre altri sei gli legavano le mani alla schiena.

‘Le regole le sapete’ disse il vegliardo con la sua voce sottile e monocorde. ‘Niente morsi, spintoni o sputi, e solo la fronte per colpire a morte’

Un risolino o due si sollevarono dalla folla e un balordo barbuto all’altro estremo sorrise compiaciuto. Aveva vinto cinque volte di seguito. Un paio di servette lanciavano gridolini e saltellavano irrequiete. Non di rado qualcuna, presa dall’eccitazione del momento, se la faceva addosso. Il bambinello si acquattò nel recinto a carezzare il gatto terrorizzato. I sei eletti saltarono al di sopra dello steccato e qualcuno con uno strattone scacciò il bambino. Quindi volsero lo sguardo verso il gatto che si era accovacciato e agitava la coda. Il pubblico si zittí.

Al ‘Pronti!’ del vegliardo si sollevò un boato assordante di risposta. I contendenti balzarono avanti con violenza, con una ferocia e determinazione che la folla si rese conto che mai a memoria d’uomo, c’era stato nel feudo di Eifionydd un cozzare di teste tanto feroce, una battaglia cosí frenetica. Di tanto in tanto uno dei contendenti cadeva scompostamente e il tanfo di polvere e piedi lerci gli inondava le narici. Scalpitavano, roteavano, grugnivano, urlavano, spintonavano, scazzottavano, sgomitavano, scivolavano, cadevano, rotolavano, strisciavano, sanguinavano e mugghiavano.

E la folla era in delirio.

‘Dai, dacci dentro! Forza! Dai!’

‘Sotto, sotto,! Più sotto! Più sotto!’

‘Dagli in testa! In testa! In testa!’

Il gatto si intravedeva a malapena tra il turbinio di piedi, gambe e teste all’ingiù. Appariva giusto di sfuggita di tanto in tanto nel frastuono e nella polvere e nella massa sgraziata e roteante di corpi.

La folla si era inferocita.

Qualcuno con un morso staccò un pezzo di barba al balordo, saltando all’indietro con i peli in bocca. Il balordo gridò, ma, avendo le mani legate, diede una brusca capocciata all’indietro rompendo il naso ad un altro concorrente.

Il lebbroso saltellava sul masso, asciugandosi con il dorso della mano il naso che colava.

Il gatto strepitò. La folla fischiava e protestava. Polvere rossa si alzò. Piedi luridi raspavano il suolo per puntellarsi. Il cielo della sera si oscurò. Le urla crebbero. La polvere si alzò più fitta. Urla...polvere....urla...polvere...

E un sottile rivolo di sangue sul muro della chiesa...






1


All’altro capo del mondo, il sole splendeva costante sulle delicate arcate, i cortili marmorei, le fontane musicali del Madrasa, la celebre accademia di Hasan in Cairo. Un secolo prima, Baghdad aveva capitolato all’avvento delle orde mongole, e ora il Cairo era la capitale del mondo musulmano. Il palazzo del Madrasa non era ancora finito del tutto, ma il cuore dell’accademia, con il suo austero edificio centrale si stagliava in tutta la sua maestosa bellezza. Il tetto si ergeva alto nel cielo, proiettato verso l’infinito, al di sopra degli studenti, gli ulmas, raccolti attorno agli insegnanti. Qui gli studenti selezionati arrivavano da bambini, per trascorrere la giovinezza a studiare il Sacro Corano e le sue tradizioni, a impararlo a memoria e a imparare anche le complesse leggi del fiqh. Era solo dopo anni di studio intenso che ottenevano lo stato di missionari, da inviare in tutti gli angoli del mondo musulmano e oltre.

E qui il giovane studente Salah Inb al Khatib era giunto ad una fase importante dei suoi studi. Per un decennio, dall’età di sette anni, aveva ascoltato e imparato ogni giorno la Legge del Profeta come è rivelata nel Sacro Corano. Gli era stata insegnata la necessità della comprensione razionale dell’universo creato per la Divina Volontà di Allah, il dovere dell’uomo di creare un sistema sociale giusto in conformità con il Volere Divino, l’obbligo di tenere a freno le bramosie e i desideri terreni, e la grandezza dell’Eterna Saggezza rispetto alla meschinità e irrilevanza dell’esistenza terrena del genere umano.

Salah non riusciva a ricordare un momento in cui non avesse ascoltato il muqri letto ad alta voce dal Libro, o un’epoca in cui non si fosse immerso quotidianamente nelle sue sacre verità. L’aveva già letto sei volte, da capo a fondo: centoventimila parole, centoquattordici suras, e seimila ayas. La fama del Madrasa era fondata sull’apprendimento mnemonico, e alcuni dei muqris avevano acquisito fama e fortuna grazie alla bellezza delle loro voci e all’eloquenza con cui recitavano le scritture. E Salah, frase dopo frase, episodio dopo episodio, attraverso la continua ripetizione avea reso il Sacro Libro parte si sé, intrecciandolo, con la sua sottile rete, nella ricca tessitura che modellava e comprendeva ogni parte dell’universo. Quasi tutto quello che conosceva, a proposito degli altri uomini e del mondo esterno alle alte mura del Madrasa, proveniva dagli insegnamenti dei suoi precettori. Salah sperava che al termine del suo lungo apprendistato avrebbe trovato alcune delle risposte alle eterne domande, relative all’origine e al destino della specie umana, al rapporto tra l’umanità e l’Ordine Divino e sul Volere del Misericordioso.

Si’, qui nella calma dei bianchi marmi e del verde fogliame, delle cascate d’acqua e della lucente serenità del sole, Salah Ibn al Khatib si preparava ad imbarcarsi nella sacra avventura del suo primo Hajj in assoluto, il santo pellegrinaggio verso la Mecca, la sede natale del Profeta, prima di ritornare al Madrasa per portare a compimento gli studi. Ma qui, ora, una triste notizia era in arrivo...Una triste notizia e per Salah una terribile notizia.

Salah, dicevano, era la copia del ricco e potente padre. Era saldo e dritto e aveva, dicevano, la forza di un cammello di tre anni. Aveva una fronte ampia e prominente, sotto un’onda di capelli neri e indocili. Il naso affilato, con la sua curva aristocratica, si imponeva tra due ampi occhi antracite variegati da una lieve venatura bruna, e la pelle era insolitamente chiara: quando era in preda all’ira o alle prese con una complessa questione teologica una vena bluastra pulsava sulla tempia sinistra. La bocca era piccola e un sorriso ironico sembrava indugiarvi, quasi, si sarebbe potuto dire, a dubitare dell’erudizione dei propri maestri. In realtà, era solo un innocente sorriso privo di qualsiasi malizia o cinismo. Il suo incedere era, secondo l’antica tradizione del Madrasa, una sorta di affettato fluire, ma se qualcuno alle spalle lo chiamava, invece di voltare il capo all’indietro, si fermava e si girava del tutto. Salah Ibn al Khatib era giovane, sprizzava vigore e ambizione, e ardeva dalla speranza di diventare un missionario o perfino un bibliotecaio accademico.

Ma ora, mentre il cuore gli batteva al pensiero dell’imminente pellegrinaggio, lo zio era giunto al Madrasa con la triste, terribile notizia.

‘Molto malato?’

‘Molto malato’ annuì lo zio Ahmad al Khatib, e assieme camminarono sobriamente verso i cortili marmorei e le raffinate arcate del Madrasa, attraverso il minuscolo cancelletto posto tra gli ampi portali, nel fumante brulicare e nel clamore del Cairo.





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