MENNA ELFYN . "Cell Angel" - traduzione d Erminia Passann anti. ANGELO DI CELLA

 

POETI CONTEMPORANEI


MENNA ELFYN



ANGELO DI CELLA


Poesie



Traduzione e cura di

Erminia Passannanti
















RIPOSTES


Titolo originale

Cell Angel




















© 1999 by Edizioni Ripostes

Salerno - Roma

Finito di stampare nel mese di settembre 1999

dalla tipografia "WM" di Atripalda (AV)

per conto delle edizioni Ripostes

Ringraziamenti


Si ringrazia l’Arts Council del Galles, nelle persone del dottor Tony Bianchi e Sioned Pew Rowland, per avere garantito i contatti e i finanziamenti indispensabili alla realizzazione di quest’opera; l’autrice, Menna Elfyn per avere accolto il nostro invito a presentare la sua raccolta; la casa editrice inglese Bloodaxe per i diritti di Cell Angel(1996).




L’ente "Welsh Literature Abroad", unitamente all’Arts Council del Galles, si pregia di avere sponsorizzato la pubblicazione in lingua italiana della settima raccolta di poesie di Menna Elfyn. Dalla costituzione della WLA (Welsh Literature Abroad), che ha preso ufficialmente il via tre anni fa, opere di letteratura in lingua gallese sono apparse in maniera crescente in versioni italiane. Cell Angel rappresenta, in assoluto, il primo volume di poesie di una autrice gallese che sia mai stato pubblicato in Italia.

La politica alla base del discorso poetico della Elfyn tende all’apertura verso aree linguistiche e culturali non solo europee ma mondiali, come dimostrano le sue liriche sul Vietnam, il Messico e il Sud-Africa, delle cui storie si trovano tracce in Cell Angel.

Con questa prima opera, L’Arts Council del Galles si augura di stabilire fertili contatti con il pubblico italiano dei lettori di poesia. Ulteriori informazioni sui fondi stanziati dal nostro ente per la realizzazione di opere di letteratura gallese in traduzione sono ottenibili dal Welsh Literature Abroad, Mercator Centre, University of Wales, Aberystwyth, Ceredigion, SY23 3AU, Wales.


Sioned Pew Rowlands


Presentazione


E’ con grande piacere che colgo l’invito della curatrice di questa edizione italiana di Cell Angel a presentare personalmente il mio libro al pubblico dei lettori. In effetti, lo ritengo un compito adeguato poiché l’intera storia italiana è tale da avere da sempre ispirato i poeti. E gli angeli che quotidianamente rivivono in noi, nel nostro quotidiano sopravvivere, non sono tanto diversi dagli angeli dipinti sui muri dei vostri antichi luoghi sacri. Angelo di cella rappresenta per me un ponte tra il mondo vecchio e quello nuovo e cerca di stimolare la nascita di un nuovo ordine, capace d’essere spirituale e, allo stesso tempo, attuale e mondano.

Sebbene Angelo di cella sia la mia settima raccolta di poesie, a me sembra come se fosse la prima. Si tratta, infatti, di un nuovo inizio, nel senso che ho cominciato a sentire cadere, uno dopo l’altro, tanti ostacoli. Mi ci è voluto molto tempo per pervenire a un’autentica libertà nel comporre versi. Per quanto possa sembrare eccessivo, ciò è dipeso certo dal fatto che per molti secoli il Galles ha partecipato al Regno Unito e, di conseguenza, ha patito l’ingerenza della politica imperialista inglese nei suoi affari interni. Tale situazione è venuta di recente a cadere nel momento in cui, qualche anno fa, il Galles ha riconquistato una sua autonomia, un Parlamento e un Consiglio.

Durante tutti gli anni Sessanta, le accese campagne a favore dell’autonomia politica della nostra nazione hanno notevolmente agevolato il recupero dell’idioma locale: una nuova consapevolezza culturale andava sorgendo intorno alla questione della lingua gallese e della sua sopravvivenza. Prima di allora, il gallese era l’idioma di una piccola comunità, una lingua impiegata unicamente in situazioni di ordinaria interazione sociale, ma esclusa sia dagli ambiti dell’istruzione scolastica sia da quelli prettamente commerciali. Questa situazione è mutata negli anni e, al momento attuale, come scrittrice, non devo affliggermi per la sopravvivenza della lingua gallese, che ha fortunatamente registrato dei cambiamenti positivi, di pari passo con l’emancipazione della donna nelle società occidentali. Queste mutate circostanze mi hanno dato l’opportunità di potermi finalmente confrontare con ambiti eterogenei che sentivo preclusi e a cui, in passato, non avevo avuto facile accesso

Ciò non esclude che io continui ad occuparmi di libertà e schiavitù. Il mio approccio, oggi certamente più obliquo, non è per questo meno appassionato e urgente. E, dunque, spero, più trascinante. In alcune delle poesie incluse in questa raccolta, ho cercato di rievocare la mia breve esperienza della prigione, una pena che mi fu inflitta per la mia partecipazione a una campagna non-violenta in difesa della lingua gallese. Ma con queste liriche ho innanzitutto inteso dare una voce a coloro che non ne hanno. Simon Veil, che per me rappresenta una grande figura ispiratrice, riteneva che il poeta dovesse esprimere con i propri versi l’esperienza di coloro che non sono in grado di scrivere poesia.

In queste mie liriche sono, pertanto, rappresentate molte delle storie mute della gente che non conta, come ad esempio, in "Sull’orlo", una poesia che ho scritto in Vietnam, traendo spunto dalla notizia della scoperta di una piccola tribù di indigeni miracolosamente sopravvissuta al genocidio. Altre poesie, come "Dolce uva" o "Angelo di cella", che dà il titolo alla raccolta, vogliono essere delle riflessioni del tutto personali sui misteri della natura umana. In particolare, "Angelo di cella" racconta di una mia visita al riformatorio in cui era detenuto un ragazzo violento, la cui triste vicenda ispira, effettivamente, una grande compassione. In altre poesie ho affrontato argomenti quali i luoghi comuni o le curiose abitudini di cui siamo tutti vittime, come, per capirci, il desiderio di acquistare in vita del terreno per la propria futura sepoltura. Altrove, volendo esplorare la mia esigenza individuale di religiosita’, ho paragonato Dio a una lumaca, a un parrucchiere, e perfino a un tassista.

Come si può vedere, in tutte le mie poesie, l’elemento squisitamente spirituale non è mai disgiunto dalla vita mortale. Le poesie dedicate al nostro autorevole storico, il marxista gallese Gwyn A. Williams, rappresentano, al contempo, un tributo alla sua opera e una riproposta di interrogativi quali l’appartenenza a una data etnia o la scoperta della propria identità culturale.

Tuttavia, l’insieme di queste problematiche terrene mi hanno fatto desiderare di portarmi ai confini dell’umano. In qualche senso, la mia filosofia di vita è racchiusa nel monito di William Blake "Vedi il mondo in un granello di sabbia". La prima poesia della raccolta, "Uomo di neve", in qualche senso racchiude la mia poetica, che confida nella civilta’ come sola forza capace di guidare l’esistenza degli uomini.

Sono grata a Erminia Passannanti, una poetessa che gode di molta stima in Italia e all’estero, per essersi dedicata con entusiasmo alla realizzazione di quest’opera di traduzione. Mi ritengo fortunata per l’ispirata interazione poetica che le ha fatto scrivere versi capaci di volare all’unisono con le mie parole in una danza tra le stelle e gli angeli.


Menna Elfyn

Note biobibliofrafiche


Menna Elfyn (1951) è originaria del Sud del Galles. E’ autrice di sette volumi di poesia, di cui Eucalyptus: Selected Poems (1995) e Cell Angel (1996) hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti dall’Arts Council del Galles, mentre altri sono studiati come testi scolastici per gli esami di letteratura A-level. Alcune sue raccolte sono state tradotte in diverse lingue straniere. Aderyn Bach Mewn Llaw, del 1990, ha ottenuto il Welsh Arts Council Prize. Oltre alle raccolte poetiche, la Elfyn ha pubblicato cinque scritture teatrali, di cui ha curato anche degli adattamenti televisivi. Dal 1984, è "Writing Fellow" dall’Universita’ del Galles.

Menna Elfyn è una poetessa che scrive essenzialmente in lingua gallese, ma nel 1998 ha lavorato in stretta collaborazione con il compositore Aaron Jay Kernis, vincitore del Premio Pulitzer, alla stesura di un libretto operistico in inglese, per la grande celebrazione della Walt Disney Company, che si è tenuta lo stesso anno a New York City.

Quando nel 1995 pubblico’ la sua prima raccolta biligue, Eucalyptus, l’autrice fu definita la prima poetessa in lingua gallese che in centocinquant’anni avesse compiuto un serio tentativo di fare conoscere la propria opera fuori dei confini del Galles. In questo suo costante sforzo di portarsi oltre le realta’ locali, la Elfyn ha partecipato a conferenze internazionali a Barcellona, Galway, Hanoi, New York e Faenza.

Del maggio 1999, è la pubblicazione di un nuovo volume di poesie dal titolo Cusan Dyn Dall/ Blind Man’s Kiss.

Attualmente, Menna Elfyn ha in preparazione una nuova commedia per l’Arts Council del Galles. Il suo più recente progetto e un documentario televisivo sul Vietnam.

Oltre a questa versione italiana, sono in via di pubblicazione traduzioni di Cell Angel e Eucalyptus in tedesco, francese e spagnolo, tutte iniziative sponsorizzate dall’Arts Council del Galles per confermare, fuori dai confini territoriali e linguistici della nazione gallese, il successo di pubblico e critica di cui gode Menna Elfyn, insieme ad altri autorevoli poeti quali R.S Thomas, Gwyneth Lewis e Stephen Knight.

Note del curatore


Autrice di poesie di forte passione civile, la Elfyn si occupa da tempo dell’identità politica e culturale di una lingua, quella gallese, per la cui sopravvivenza si è battuta, a partire dagli anni Settanta, al fianco di un gruppo di intellettuali, scrittori e artisti gallesi, facenti capo al poeta veterano R.S. Thomas.

La Elfyn ama definirsi "un’anarchica" cristiana. Le sue vicissitudini comprendono un breve periodo detentivo, inflittole per avere preso parte attivamente a delle campagne politiche di protesta in difesa dell’identità culturale della lingua gallese, esperienza di cui si trova un’esplicita testimonianza nella raccolta Cell Angel.

Pubblicato nel 1996 da Bloodaxe in versione bilingue gallese/inglese, Cell Angel spazia dall’angusta cella di una prigione cittadina alle squallide stanze di economici hotel in Messico e in Vietnam, dalle fredde e deserte spiagge della costa gallese agli arsi campi assolati dei soldati mercenari, in un Sud-Africa battuto dalla violenza delle lotte etniche.

Il titolo della raccolta suggerisce due realtà antagoniste: la prima, concreta e brutale, rende conto della profonda e lacerante alienazione di cui un individuo, colpevole o innocente che sia, fa esperienza in prigione. L’altra, impalpabile e metafisica, suggerisce la scelta della segregazione, vissuta come una dimensione spirituale per molti versi vicina a quella di una cella monastica.

Prigione o eremo di separatezza, la cella diventa in entrambi i casi la meta ultima di un pellegrinaggio interiore necessario. Dibattendosi tra le forte pulsioni della carne e le astrazioni della mente, l’angelo recluso, di cui ci parla la Elfyn, perviene a una fede bizzarra ed elusiva, miscela di dottrine cristiane e orientali, rese specchio delle tendenze misticheggianti e semi-serie dell’era postmoderna.

Ispirandosi alla filosofia Tulku e al pensiero indiano Boddhisattva, Menna Elfyn descrive il proprio cammino poetico attraverso un percorso certamente sofferto, ma gratificato dalla scoperta di una dimensione spirituale, capace di esorcizzare varie condizioni di schiavitù. Nelle sue liriche sembra dissolversi quel particolare stato di semi-cattività imposto alle donne all’interno di una resistente cultura di stampo patriarcale, una condizione subordinata che le confina a riduttivi stereotipi dell’identità sessuale e civile, bersaglio primario della critica femminista.

Lo stile della Elfyn, incline a un uso sottile della parabola piuttosto che all’aperta polemica, esalta gli strumenti dell’immaginario in situazioni di estrema tensione e imprevedibilità, nelle quali la vulnerabilità rappresenta solo l’altra faccia del coraggio.


La prevalenza, in questa raccolta, di poesie in verso libero, non esclude un impiego sporadico di forme metriche tradizionali, come il sonetto, la ballata e la villanella. In "Segreti", la Elfyn fa uso del ritornello, originario delle ballate francesi e molto diffuso nella poesia olandese, consistente in una organizzazione strutturale di quattro o più stanze di uguale andamento metrico e schema di rime, che tendono a chiudersi tutte con un identico verso. In questa poesia, la variazione costituita dall’alternanza di due distinti refrains, riproduce il susseguirsi ritmico delle onde del mare.


Cell Angel si conclude con una sequenza di elegie funebri in memoria dello storico marxista gallese Gwyn Alf Williams, innalzato a eroe nazionale. Attingendo materiale dalla tradizione popolare, e contribuendo a renderla viva ed attuale presso la collettività dei parlanti, Williams riprese, tra le altre, l’antica leggenda secondo cui fosse stato un principe del Galles a scoprire l’America, e non Cristoforo Colombo. Nella poesia "L’anno della peste" ("The year of the Plague"), la Elfyn fa riferimento alla tribù di indiani del nord-America, i Mandans, considerati appartenenti a un comune ceppo celtico. Ne consegue che l’idioma di questa gente sia di provenienza gaelica. E, per analogia con la piccola collettività amerinda dei Mandans, di cui solo due individui sono ancora capaci di articolare un discorso nel proprio idioma, anche il popolo gallese vede prospettarsi la grave minaccia di un’imminente estinzione della propria lingua.

Appartenente a una famiglia distinta di lingue a carattere consonantico, il gaelico non condivide con l’inglese nè parole con una radice affine nè un uguale ordine sintattico. Ha, invece, condiviso con la lingua dei Re invasori, il suolo e la storia, in vicende che, nel corso di secoli di sottomissione, hanno visto il diffondersi della lingua anglosassone alle spese dell’idioma locale. Solo di recente, il gallese è stato introdotto nei programmi scolastici come prima lingua e riammesso in tutte le sfere della vita pubblica, politica e commerciale.


La sequenza di poesie dedicate a G. A. Williams, mentre traduce un forte desiderio di rivendicazione della radice storico-linguistica del territorio gallese, esalta l’idea di una nazione-famiglia quale forma ideale di organizzazione politica, a cui, tuttavia, aderire sulla base di saldi presupposti critici.

Si tratta del sentimento che, negli ultimi trent’anni, ha rappresentato il motore primo del risveglio dell’identità nazionale e degli odierni sviluppi politici della nazione. Va riconosciuto al popolo gallese il merito di avere condotto campagne politiche per la conquista dell’autonomia prive della violenza che da sempre caratterizza l’acceso nazionalismo irlandese dei Troubles.

Tale progetto di decolonializzazione del potere politico britannico trae certamente beneficio dall’accresciuto interesse per la sopravvivenza di quelle aree linguistiche e folkloristiche della cultura locale, che appartengono in modo esclusivo al Galles e al suo patrimonio storico e leggendario. Attualmente, infatti, questo recupero della fisionomia nazionale rappresenta una grande fonte di ispirazione per le arti, confermandosi come una delle più stimolanti forze operative del Paese. Ma soprattutto, traducendo non solo gli obiettivi di un’élite ideologica, la lotta ha preso il via dalle rivendicazioni del proletariato rurale in quelle valli del Galles prevalentemente pastorali, spesso ridotte a meri distretti minerari, che conservano una tradizione di sinistra, e nelle quali l’esigenza di una presa di potere si fonda su bisogni economici primari di controllo e difesa del territorio.

Erminia Passannanti

Angelo di cella


Uomo di neve



Com’è semplice l’uomo che facciamo

nascere in un’ora. Da un bianco embrione,

con agili mani. Concreto,

guardando oltre la sua spalla,

è il desiderio che manteniamo

disarmato


senza futuro.


Molte palle di neve piu’ la’

sono le alte vette che inducono un uomo

a costruire una ciminiera da polvere bianca

dove la neve, volando raso terra, guida

orme verso il luogo d’incontro. Spalle al muro.


In alto, insonni elicotteri

tengono d’occhio la coltre della terra,

finche’ non cala l’imprigionante notte,

rabbuiandosi sulle derive

e sulla terra


immobile, stretta nel suo gelo. Ore

stranite, crudele anatema

che versa giù la sua peste. Giunge il soccorso,

orme d’uomini sulle tracce del suo percorso.

Ecco, lo portano in salvo sul camion,

lasciando una punteggiatura sulla neve,

ogni osso, ogni giuntura un atto di fede


nella grandezza umana,

nel desiderio di comunicazione. Concedersi

nell’esperienza, cosi’ che il linguaggio chiaro della neve

incespichi

cosi’ che gli uomini conducano la generosità


su fino all’Everest,

giù fino a una nicchia.

Letto a due piazze



L’Incomprensibile tirannia del letto a due piazze.

Addormentate, le membra sono single, vagano,


senza partner, nei saldi possedimenti

sotto le coperte, non colonizzati dalle razzie


della nazione-stato su terreni produttivi. A volte patto,

altre volte tarlo sulla lingua che lotta


per liberare una gamba o scorrere le asperità del materasso.

Profondissimo è il sonno che segue la passione,


quando infine ci teniamo distanti. Evita il gomito volante,

l’affilata spalla. Un lembo diventa la faticata parte dei propri


effetti personali. Relegata in un angolo. Ma quando sei via,

il mio piccolo essere nel letto ha troppo spazio


per la propria identità. Col viso sul cuscino, inizio a temere

che l’intruso non tornerà alle inquiete piume


e il letto senza il tuo corpo m’appare un’armatura

di legno. Resto cosi’, abbandonata al sogno


della carne loquace, agli spilli del desiderio,

al totale disordine sotto le mie coperte.

Spilla

(in memoria di Stephanie Lacleod)



Hanno il loro posto, gli accessori:

orecchini, l’insolita collana,

il braccialetto di gemme…


Eppure, da una soffice profonda intimità

fabbrichiamo l’ornamento della nostra vita,

quel prezioso cimelio che deve sopravviverci.


Il tuo era una splendida spilla –

il fermaglio, un’arte appassionata,

la catenina, il suo sicuro sigillo;


Altri, ora, sfoggeranno la tua spilla –

questo gioiello foggiato da un cuore d’oro.

Catturerà il sole. Ci abbaglierà.

Dolce uva

(Durban)



"Fa’come se fossi a casa tua".

Strappo’ un grappolo d’uva

viola come un livido e la fece scomparire

nel cratere spalancato della sua bocca

sotto l’acciaio opaco del fucile,

scuotendo la testa, la’ dove sedeva

con le spalle contro sbarre cosi’ fitte

da impedire l’accesso a un galletto.

Un Rottweiler che fiutava bramoso

il suo percorso verso luoghi non domestici.


"E’ un rifugio sicuro", disse,

invitandoci a piluccare

ad uno ad uno quegli acini di benvenuto.

"Mai nessuno", sosteneva la moglie,

"non un solo indesiderato furfante, è mai stato qui,

eccetto banditi imboscati tra gli alberi

che ballano al ritmo dei proiettili."


"Sono un uomo timorato di Dio",

era il suo eterno soliloquio,

" non faccio male a donne e bambini,

ma un uomo è un’altra cosa, un uomo da uccidere,

eliminare. Un solo colpo

al losco bersaglio,

Angola, Argentina, ci sto come a casa.

La vita somiglia al ciclo della catena alimentare."


Un rifugio sicuro nel sole,

un uomo che s’infervora

per i bombardamenti a tappeto,



mercenario caritatevole

che offre ai suoi ospiti

dell’uva piena zeppa di piccoli semi,

proiettili da sputare verso il sole.

Angelo di cella



Grigie celle su entrambi i lati

assistono le ossa che celano

per un attimo il loro aggravio di dolore,


eppure, non erano mortali, gli angeli,

il suolo Greco e Persiano ebbro di vendetta,

la Bibbia incline alle dispute?


Mi condusse, quest’angelo, dalla sua cella all’ingresso,

lui ed io e un pianoforte a coda,

tormentando le chiavi tra le mani.


Incarcerato, diede inizio a un concerto al suo patrono –

twinkle, twinkle, poi una nota violenta –

prima di fallire l’ascesa delle nere valli.


Angelo di strada, senza casa, smarrito,

il cielo che affonda nelle profondità del piano,

mi chiedo tu chi sia.


La pausa mette fine all’assolo. Chiavi serrate

nel nero pugno del piano. Dissonante,

uno strumento su cui nessuno si e’ esibito. L’Angelo


disceso e il suo concerto appassionato

d’un tratto si trasformano in note che riverberano

in questo luogo senza musica. Sfiorare una sottile corda.


* * *


Concederei permessi di soggiorno agli angeli,

serafici soprani interdetti

dalle alte sfere dove le stelle suonano


i loro facili flauti nei dorati cori angelici

con voci limpide come vetro

tra il marmo e gli echi. Dio è tra loro


quanto lo è tra noi, nella cella dell’angelo

dove le corde suonano senza accordo armonico

e io mi alzo su piedi di argilla ad applaudire.


Encore al sogno dell’angelo di cella

affinché voli sgravato dal peso del suo corpo

attraverso le mura, senza ombra, con ali


lievi verso la grande cattedrale.

Ma dietro questa porta, bande di ragazzi

fanno risuonare sogghigni sinistri.


E per ogni Michele, Gabriele, Raffaele,

c’è una cella che li condanna a rimanere angeli caduti

e il custode delle chiavi è solamente

un canto d’amore. Un dio incapace di aprire chiavistelli.

Salmo per lo spioncino sulla porta della cella



Tu sei l’occhio di Gaia

che alle volte mi fa l’occhiolino, malandrino

per tenere sotto controllo le mie mura.

Sei l’occhio della ragazza prigioniera

che sbircia dentro mentre la portano di sotto

ostruendo lo spioncino col suo sguardo disattento.

Di tanto in tanto, un occhio a doppia lente

recita parole sagge

ad una con un cipiglio impuro.

L’occhio della candela che arde

nel buio della solitudine

lenendo la mia inedia con il sonno.

Sei l’occhio evanescente che scuote

il mio mondo stellato e leva il mio sguardo alle colline,

per osservare i piedi di chi ha camminato

dove si celano le chiavi di Maria

e lacrime si versano sulla primula del Suo manto.


Gaia dall’occhio bruno,

Namaskara, il divino in te saluto

che fuori dal mio essere crea una porta aperta.

Fiori selvatici



Dietro le sbarre, la corte dei giudici s’aduna. Dinanzi a loro,

come silene fiorisco con coraggio, sebbene

le mie vene siano in preda a un tremito.

Ma la farsa non dura. Lo vedono,

in apparenza simile alla belladonna,

sono nell’intimo la viola più contratta.

S’arrampica su di me la dulcamara,

mi s’inclina addosso una campanula

e sa che non fui mai strappata, mai sradicata dalla siepe.

Mano d’uomo contro la mia nuca mai sentii simile a falcetto.

Trascorsi il tempo in quei recessi ombrosi dove non passa alcuno.


Velocemente, unitamente pervengono al giudizio. Non sono

impavida, stupida piuttosto. E cieca. Una che trasalirebbe

perfino se a inseguirla fosse una farfalla. Che tipo di ragazza

avanzerebbe, nei casuali nettarini sabati della giovinezza,

verso i piaceri delle aiuole? S’impietosiscono


per i miei sobri calici, queste mordigalline scarlatte.

Sulle braccia non ho cicatrici d’aghi. Non succhio droghe

per alleviare il dolore.

Non sono in manette. Ho vissuto in una nicchia ombrosa

tra fiori che hanno visto gli uragani, patito atroci mietiture.


Giunge l’ora di rendere testimonianza –

ai graffiti, sulla tabula rasa dei muri,

tre papaveri dal lungo stelo, in paradiso –

ecco, in bella mostra il papavero rosso, trionfante sulla morte,

sebbene i prati siano ancora macchiati di sangue,

ecco il papavero bianco che indosso come un osso di pace

ogni novembre, sfidando le devozioni alla guerra;

ed eccomi qui, il papavero gallese dal capo reclinato –

nella febbre gialla di una comune debolezza.


I giudici si ritirano, sorridendo all’umile papavero

sull’orlo di un accesso di rabbia, uno stelo piegato nel vento.

La cella accanto



e attraverso le sbarre della notte sono ostaggio

di Atlantico 252. Saprei combattere

contro le onde dell’oceano

ma queste sono onde d’amore

di chi sola conosce il diluvio

di chi sola conosce il riflusso

sulla cresta dell’onda.


La donna continua a cantare il suo ritornello

e non è uno scherzo – attraverso mura sottili

la sua voce sfiora il confine

del desiderio che spoglia le note

E le denuda, così da farmi tremare.


Come desidero incontrarla, ora,

la donna della cella accanto che ronza

tra le foglie del suo sicomoro cascanti sul mio recinto,

come nulla e’ sacro, oggigiorno.

Sacro è soltanto qui il predicatore

che ci porge un salmo di domenica?

Vogliamo appartenere a quel canto.

Non importa se è stonata, la donna.


Ma, anche se la sua canzone è graffiante,

con lei ardo adultera per il solista

che ci infiamma il sangue. Ardo per lui,

soffro i suoi blues. L’agrodolce lasciare che sia

una ragazza smarrita nel buio,


che continua a cantare stonata

tra le catene della sua canzone acuta.

Convento



Tutt’uno, convento e prigione. La monaca nella sua cella

e queste provvisorie vergini strette nelle proprie braccia.

E’ vietato parlare in disparte. Inutile trastullarsi con le dita


in un mondo fuori dal tempo. Ognuna conosce il dolore

dell’altra, ha lottato nel fango contro i ratti,

l’amarezza, il suolo dei propri giorni,


l’amore deformato sul muro, una croce tra due ladroni,

come tra loro una cella e un’insignificante ferita,

tra profondi, infrequenti sospiri. Chiami Padre chi


ha lasciato suo figlio in questo posto abbandonato da Dio,

lo spioncino il suo unico sollievo. Ha implorato la libertà

dietro cauzione, di riscattare il suo tempo, ha invocato pietà?


Siamo delle anacorete. Dopo cena,

ci dedichiamo alla contemplazione. Prepariamo involtini

senza carne. Vi piaccia o no, siamo spirituali,


e sopportiamo la nostra croce, sotto il cuscino,

eroiche nel sacrificio, in attesa di mettere le ali.

No. 257863 H.M.P.



Non mi compatire,

non sono Pasternak

e nemmeno Mandelstam,

potrei pagare il mio rilascio,

tre ore e sarei a casa.


E’ un albergo economico,

e tuttavia di lusso

tra gli acquerelli della percezione -

le sbarre solo il pane quotidiano del poeta.


Ti ringrazio, mia Regina, per la tua effigie sul sapone,

per il porridge servito in orario e queste tovagliette linde.

Sono qui per una data causa,

ma ne ho trovato delle nuove.

Siesta

(in Messico)



Il tamburellare segue uno schema ritmico

sul muro, un lungo battito sferzante.

"Strano posto per sbattere",

nota mio figlio. Decido di ignorare la "esse".


La marea s’alza. L’onda amorosa straripa

e la cruda cadenza della vibrazione

proietta una luminosa pioggia

prima del brivido dell’estasi.


Chi ha vinto? Se lo chiedi ancora

ti tiro fuori un detto -

"Se nessuno bussasse alla porta per dirtelo

non ci sarebbe una risposta certa". Un azzardo?


Eppure, di sotto, gli accenti della carne

mi scuoiano viva per il desiderio,

accendono i miei istinti. E tutta bramo

di celebrare il corpo incatenato,


e le mie labbra di cantare le sue note,

e ansimare, e fare l’amore, e collidere

nel gioco che più antico è dell’ "umano".

Sull’orlo



Saranno sempre con noi, le minoranze,

deboli e inceppate nel linguaggio.

"Non c’e’ niente in quel posto", dissero quelli

che mi ci accompagnavano,

e tuttavia c’incamminammo

sulle tracce del bandolo della matassa

che intesseva le loro coperte a strisce.


Sembrava non ci fosse nessuno in casa –

poi apparve una vecchia, tutta china,

una specie di donna circonflessa,

sospettosa degli estranei.


Solo una tribù collinare,

un’intera nazione in una manciata di gente,

le unghie tagliate,

la mano stretta a pugno,

i bambini che si tenevano a distanza –


e d’improvviso,

una porta aperta –

un calderone in mezzo a una stanza,

il fuoco crepitante,

braccia a cullare.


Prima che andassi via,

la donna ha voluto mostrarmi una bibbia in latino,

leggermi la storia di Gesù

e la fuga della sacra famiglia.


Alla fuga ci forza l’incontro con la fede

il nostro destino è quello dei rifugiati –

abbandonati alla merce’ di terreni pietrosi.

Me ne andai, lasciandole un dollaro in mano

come ricompensa per la sua eloquenza,

e tornai a sputacchiare nella lingua dell’interprete.

Sollevando un velo

(a una zanzara)



Piccola straniera, il sollevarsi di un velo sulle parti intime

si conviene a una povera mortale che si arrovella

sul da farsi? Comprendi i dubbi


nel grido di questo mucchietto sudaticcio? Sei forse

l’ardito che imprime il suo bacio

sul corpetto che resiste, il soave sussurro all’orecchio?


Tenera sotto la foschia di questo drappo,

non so mimare il malore dell’amplesso

ali di diavolo, faccia bella, angelito,


bramoso di carne ardente. Incita il perpetuo cedere

tra il languore e il fervore, quel tuo insonne solletico

che mi trastulla sotto il velo, con vulnerabili dita.


Impetuoso forestiero, il tuo ardente, ostinato benvenuto

mi sarà fatale? Ci sarà una celebrazione? E’ questa la maniera

degli umani? Resistendo. Ma grati poi per una notte senza fine?

Sul punto di annegare



Da bambina temevo l’acqua alta,

il risucchio delle onde, come in ansiosa

attesa di "un rischio imminente"

tra spruzzi salmastri sotto l’arco del sole.


Mi ci avventuravo,

accolita dell’Esercito della Speranza,

avanzando piano, vigile e in guardia;

"Gesù mio, insegnami a nuotare

nel mondo come in questa baia."


Ma la mano di mia madre era la bandiera

in fondo alla spiaggia che mi ammoniva

di non spingermi dove non avevo piede.

Quel mezzo commiato nel suo sguardo

mi faceva capire che non esisteva spazio

esente dalla cura eccessiva del suo amore.


E ricordo mio padre che le insegnava

a nuotare, guidandola,

reggendole in alto il mento con la mano,

prima di sottrarla, causandole il terrore

che la lasciava balbettante, come mimando le prove

d’un futuro annegamento, sulla spiaggia di Gower,

ridendo della grassa perché il mare

non era abbastanza forte per tenerla a galla!


Ma era tardo pomeriggio

ed io ero lontana da casa

in un mare chiamato Pacifico

e facevo il morto sulle onde,

raggirata dall’azzurra corrente,

galleggiando senza paura nella maturità

della mia mezza età, un camerata,

l’oceano più antico della storia.


Ambra



E dalla roccia, ambra,

dono intrappolato e asfittico, estratto dal bisogno.

Ci vengo, a questo fine mercato,

apprezzandolo come se fosse oro giacché l’emula

nel prezzo e nel colore che intimamente appartiene

alla gelida pietra della preistoria.


Conoscere quell’incredibile luce

è trattenere il fiato. E la mosca minuscola, perpetua,

s’agita fulgida nella lunga notte

dell’anima. Ambra che incendia la fede

con un lavorio segreto, schiudendosi senza tregua

prima che lucide catene attanaglino le fragili ossa.


Gemma senza impronta digitale,

la sua alba radiosa

è spasmo di gioia.

Segreti



Nel profondo, un mistero di suoni canterà

mentre l’oceano si comprime, il Pacifico infuria,

un rosso segreto sotto il puro coperchio dell’ostrica.


Un pomeriggio, le increspature sbadigliavano

in attesa d’una rimescolata, il sole tramontava –

nel profondo, un mistero di suoni canterà.


Dondolando con le mani simili a una rete gettata,

sono tra le onde dove respiro la morte,

un rosso segreto sotto il puro coperchio dell’ostrica.


Quando l’acqua salsa esige la preda, il suo piccolo aculeo

li trafiggerà, intrappolando i mortali in chiuse sottomarine –

nel profondo, un mistero di suoni canterà.


Quante perle si smarrirono nel diluvio contro il grano,

quante armonie si spensero dinanzi a quella nera voce:

nel profondo, un mistero di suoni canterà,

un rosso segreto sotto il puro coperchio dell’ostrica.

IV



La madre lingua,

la vecchia lingua tra la madre e la figlia.


Nei periodi di malattia, eccola lì,

con il palmo premuto sulla mia fronte,

che mi sistema un ricciolo,

impastando la febbre che si annida tra i miei capelli,

colpendola finche’ non mi addormento.


Anche al tempo in cui stavo crescendo,

mi faceva rabbrividire fino al midollo delle ossa

ravviandomi i capelli

come se fossi una bambola di pezza.

Evitavo la sua mano d’acciaio, d’un tratto folgore.


Finalmente capisco di cosa si trattava:

la vecchia lingua tra la madre e la figlia,

la traccia da amare in un ricciolo,

trattenendo il passato di un seme


in un mondo messo a nudo, quel tocco

nella treccia di riccioli d’oro,

emblema del mio orgoglio,

adesso gioisce sulla tua fronte.


Si, figlia amata, il giorno

che i tuoi capelli saranno bianchi,

desidererai l’ampiezza di respiro dei capelli

nel frutto della tua stessa carne.

I molti nomi di Dio



"Dio è solo il nome del mio desiderio."

-R. Alves


Taxi.


Chiamo un taxi. Arriva lui. A volte s’attarda,

annaspando tra le ore, cercando nello specchietto retrovisore

ciò che è andato perduto. Ma prima di lui, lo schermo

tra noi. Lo schermo di vetro e la notte affannosa.


Giunse una volta. Scorsi il riflesso della sua lustra cromatura.

Un tipo riservato, che non cercava di rallentare l’andatura

o di perdersi in vuote discussioni. A piedi? Quasi sprofondai

tra la cunetta e il marciapiede. Schivai la folla.


Un altro esilio. Alla mercé del tempo.

Temendo un freddo "monta su". Aggrappati a me.

Questo motore è per ognuna, coraggiosa o timida che sia.


Non mi fa domande. Prende le mie richieste

seriamente. Taxi perfetto,

il posto vuoto di fronte a me, un santuario,

un semplice tempio. Tenemos. Confessionale senza prete.


Cerco sempre lo stesso taxi. Altri tassisti fanno

a gara. Offrono un viaggio più lungo e un prezzo stracciato.

Ma il suo taxi mi è caro. La mia anima

concede malvolentieri la mancia.


A dire il vero, spesso la sua attesa diventa aspettativa

alla fine della fila. Conosce l’agonia

dell’attesa. Aspetta la mano successiva che si leva,

tesa verso la porta aperta.


Se si riesce ad afferrare la maniglia in questo andirivieni,

metterà a punto il tachimetro: il fermarsi e l’attendere

s’alternano; sempre s’attende qualcosa, quando ci si ferma –

all’inizio di un viaggio ad ogni nuova soglia.

Nomignoli



Dio, ho cercato delle definizioni

che mi facessero percepire la tua presenza.

Di mattina sei la goccia solitaria di rugiada

che si contrae minuta come un’iride. In un batter

d’occhio, sparisci. Ritorni

a un’invisibile, sicura povertà.

Evapori, goccia a goccia. I nostri errori

si rifrangono in una creazione avvolta in spiegazioni.


Al tramonto, sei la scia di una lumaca,

una traccia luminosa di polvere diafana,

la benda lenta

che fascia i tremabondi piedi umani.

La parola è un guscio

che ti ha lasciato nel fango,

dove ti contrai con sforzi argentei


prima di ritornare all’umido posto

di fili d’erba

e agli steli che raccolgono le tue lacrime.

Piccioni a Ebbw Vale



Una fila di baracche ammassate sulla montagna.

Dure consonanti nel timpano del vento

dispiegano le loro tenui ali nella corrente.


Ferme colonne sulla collina restituiscono

la compostezza dei solchi alla terra,

magra consolazione in un siffatto luogo.


Quanti fuggirono di notte da quest’acro,

battendo la valle lontana con un messaggio,

nel silenzio delle miniere e della gente.


Uccelli di pietà. Fedeltà.

Uccelli che sfidano le nubi di questo vivo mondo

prima di sfiorare la collina senza volontà né lode.


Angeli del cielo. Simboli

dell’immobilità di una valle.



(2 poesie in memoria di Gwyn Williams)


1.


Funerale internazionale



E venne la Rivoluzione a Arberth –

uccelli di tempesta in palandrana nera

giunsero in modo tutt’altro che anarchico,

un pomeriggio, lindi e pinti, incontrastati…….

la tetra pioggia esitante di novembre

disciplino’ i pensieri di un soldato

che non apparteneva a nessun plotone, un senza tetto

che bramava il ruggito della ribellione.


Ma giunse una nuova guerra

e trasformo’ abilmente

la mattina di bianchi armenti in una truppa a cavallo.

La chiamata giunse senza biga,

non sorgeva da un lago, non brandiva una spada,

non turbava come un’onda la superficie assopita;

non esplodeva dal fieno non mietuto, non creava scompiglio.

Fu come un forestiero che bussa una sola volta, e propaga

dolorosamente a raggiera sui polmoni la propria perfidia.


Li condusse per la cattiva strada. Fu l’esercito della guerra civile,

il campo di battaglia, la carneficina nutrita dal suo seno.

2.



Dyfed perdeva la sua magia nella nebbia

mentre lo portavano via su un ridicolo trabiccolo

neanche fosse un intoccabile registro!

Avremmo forse dovuto reggergli

le spalle, alla maniera del pueblo,

invocando per i nostri creduloni il confine della morte?

Avremmo dovuto beffeggiare quelle ruote arroganti

che molto decentemente lo trasportavano via –

e sfidare la loro potenza con la grazia

delle parole del nostro Gramsci?

Ma nota, pugni infuriati verso Epynt

si levarono durante quel tranquillo funerale

per distribuire la fede ai nostri concittadini

prima di girare i tacchi e ritornare a casa –


una fiamma volpina in una bocca davvero poco animosa.


* * *

Dietro di noi, s’attendeva un altro funerale,

due uomini dentro un camion con una bara economica

in spedizione senza l’impresario delle pompe,

facendo un DIY del DNA.


Avresti riso a crepapelle

perché quella era per te l’umanità

il proletariato che compone dal manicomio

un salmo affinché vaghi libero


contro la morte e la sua squadrata nullità:

non per rendere un supremo epitaffio all’uomo?

Gli anni della peste

Gwyn A. Williams – Referendum 1979



Le luci della festa danzante guizzarono per annunciarne la fine,

le musiche lasciarono i giovani assordati,

la trasgressione non ai tuoi piedi, ma sulla nostra terra.


Siamo polvere al vento? Gridasti.

Siamo materia grezza della storia d’altra gente?

Siamo una tribù intrappolata in un bosco?

Ci ha reciso le ali una coltello affilato?


Fu così che brillò l’intera nazione messa a nudo

sul muschio della regione montagnosa,

la pelle selvatica arsa dalla pioggia acida

nelle raffiche gelide del vento, i nervi crepitanti,

le nostre passioni fredde come gerani azzurri?


E senza pietà, ti chiedesti ,

la legge di gravita’ si spezza

ai piedi della roccia, diventando una spina nel fianco?

Eravamo topolini che un gatto sazio

si divertiva a torturare tra la coda e le zampe?


Avevamo il vello di pecora d’una nazione gestita

come una parabola messa all’ingrasso……..

e tutto il tempo la tua voce era

l’arido canto

del misero fringuello che la nicotina

aveva condannato, mentre la tua ansia

ti chiudeva in una cella,

l’uva rossa del sangue diventata ormai nera.


Furono rinviate, dunque, le danze?

Un flauto d’argento privato della musica, nel fango,


s’incamminò nel folto degli alberi,

tra i mandani in agguato sul suo percorso,


un latino da solo sotto la pioggia.

6. Un uomo e il suo cane




Sulla terra di nessuno

per chi lo conosceva

era l’uomo

che passeggiava col suo cane

dal confine comprendo la distanza

da Trefelin a Gorki,

nel crepuscolo dove s’incontravano due lingue,

l’incertezza dello schiavo

e la madre-lingua della giustizia –


Era un uomo nella sua parrocchia,

la sua casa era il mondo.


A volte per me é simile a rugiada,

un nugolo di zanzare sulla palude,

altre volte, una spola in un mulinello

di matasse variopinte, carico

come un copriletto inamidato con le frange sciolte.


Sulla terra di nessuno

per una generazione che non amava eroi

era quello

che governava la nazione:


percorse le oziose industrie della storia

vi ci mise dentro il suo bastone, fece scintille


fino a quando le ruote meccaniche

non cambiarono rotta.

8. Triadi


Deve essere comodo appartenere a un popolo che non ha bisogno di gridare a squarciagola per convincersi di esistere.

(Gwyn A. Williams)



S’era perduta la fede nel Sacro Grail

tra gli uomini nuovi, le strane facce, le altre menti’

o s’era trattato di una falsa stella?


Un giorno, alla fiera, durante un’escursione domenicale

estemporanea – eravamo in cima alla ruota panoramica

quando questa si arresto’ all’apice del cielo

con noi lassù in attesa che riparassero il guasto.


Di sotto, vicino al guado, vedevo

un JCB che ispezionava i quartieri,

e più in la’, un vecchio che spingeva una carriola di foglie

scure e fradice…


In alto, le evoluzioni della terra, ali di uccelli migratori,

il bisogno di accodarsi per raggiungere Beulah –

se non fosse stato difficile distinguere i falchi dai corvi.



INDICE


Ringraziamenti

Presentazione

Note biobibliografiche

Note del curatore


ANGELO DI CELLA


Uomo di neve

Dyn Eira

Letto a due piazze

Gwely Dwbwl

Spilla

Broits

Dolce uva

Grawnwin Melys

Angelo di cella

Cell Angel


Salmo per lo spioncino sulla porta della cella

Salm i’r Gofod Bach yn y Drws

Fiori selvatici

Blodau Gwylltion

La cella accanto

Drws Nesa

Convento

Cwfaint

No. 257863 H.M.P.

Rhif 257863 H.M.P.

Siesta

Siesta

Sull’orlo

Yn eu Cil

Sollevando un velo

Codi Llen


Sul punto di annegare

Bron a Boddi

Ambra

Ambr

Segreti

Cyfrinachau

IV La madre lingua

IV Mamiaith


I molti nomi di Dio

Enwi Duw


Nomignoli

Llysenwau

Piccioni a Ebbw Vale

Colomennod Cwm

Funerale internazionale

Angladd Internationale

Gli anni della peste

Blwyddyn y Pla’

Un uomo e il suo cane

Dyn a’i Gi

Tridi

Y Trioedd







Per la quarta di copertina


Pubblicato nel 1996 da Bloodaxe in versione bilingue gallese/inglese, Cell Angel, della poetessa Menna Elfyn, spazia dall’angusta cella di una prigione cittadina alle squallide stanze di economici hotel in Messico e in Vietnam, dalle fredde e deserte spiagge della costa gallese agli arsi campi assolati dei soldati mercenari, in un Sud-Africa battuto dalla violenza delle lotte etniche.

Prigione o eremo di separatezza, la cella diventa, in entrambi i casi, la meta di un pellegrinaggio interiore necessario che perviene a una fede bizzarra ed elusiva, miscela di dottrine cristiane e orientali, rese specchio delle tendenze misticheggianti e semi-serie dell’era postmoderna.

Lo stile della Elfyn, incline a un uso sottile della parabola, piuttosto che all’aperta polemica, esalta gli strumenti dell’immaginario in situazioni di estrema tensione e imprevedibilità, nelle quali la vulnerabilità rappresenta solo l’altra faccia del coraggio.




Erminia Passannanti è poeta e traduttrice. Ha pubblicato un’antologia di poesia britannica contemporanea (Gli uomini sono una beffa degli angeli, Ripostes), tradotto autori quali RS Thomas, (Liriche alla svolta del Millennio, Manni Editore), Seamus Heaney, Emily Brontë (Poesie, Ripostes), Hubert Crackanthorpe (Racconti contadini, Guerini associati), Sylvia Plath, Geoffrey Hill e Samuel Beckett. Ha curato un numero monografico de “L’Immaginazione sulla letteratura gallese contemporanea (Manni) e pubblicato saggi di critica letteraria nelle riviste “L’Immaginazione”, “Linea D’Ombra” e “Poesia". Nel 1995, ha vinto il primo premio della rassegna nazionale di poesia "Laura Nobile" dell’Università’ di Siena. Attualmente insegna Letteratura Italiana al St. Clare’s International College di Oxford.


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