Intervista a Nadia Cavalera. A cura di Erminia Passannanti
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Impegnata
nella ricerca poetica militante già dagli anni Novanta, unica poetessa inclusa
nell'antologia Terza ondata, curata da Filippo
Bettini e Roberto Di Marco sull’ultima possibile avanguardia del Novecento, da
tempo chiami la tua poesia s/poesia. Quale ne è il motivo?
È
una poesia altra che prende le distanze da quella tradizionale, più
addomesticata, spesso tutta sentimentalismi, fiocchetti e fiorellini, o vuoti
ghirigori autoreferenziali. È una poesia fredda, a progetto (spesso in
concomitanza verbo-visuale), che insegue i campi della meraviglia e dello
stupore, per lasciarti spiazzato, per una nuova semina. È insolita. Appunto
spoesia.
Giocando
molto sulla lingua, la mia spoesia, si confronta con tutto ciò che la circonda,
cercando di raccontarlo e illuminarlo non solo per me ma anche per i lettori,
così da coinvolgerli in un’esperienza conoscitiva diversa, costruttiva. E nel
fare questo estrapola e deposita la mia impronta unica. Quella che è in tutti
noi. Quella che vorrei che tutti riuscissero a tirare fuori per ricomporre il puzzle
della verità ultima, in noi disseminata. Ecco affido alla s/poesia questo
potere maieutico, rivoluzionario.
Potresti
darci una definizione di scrittura dalla tua personale prospettiva?
È
qualcosa di molto naturale, incontenibile, corroborato certo dalla pratica
costante e massiccia della lettura. Qualcosa di impellente e gioioso, ma anche
faticoso, come un qualsiasi parto. E questo sin da giovanissima, prima che, per
un evento molto doloroso, mi imponessi il silenzio, come forma di
autolesionismo compensativo. Da cui solo lentamente, negli anni, sono uscita
fuori. E non del tutto. La perdita di un figlio segna l’animo per sempre.
Quali
sono gli autori del tuo iniziale percorso?
Dante,
innanzitutto. La Divina Commedia era sempre sul comodino di mio padre.
All’inizio la sfogliavo distrattamente, giusto incuriosita dal fascino che
esercitava su di lui (conosceva dei versi a memoria), e solo dopo, quando non
potevo più confrontarmi con lui, ne ho capito il grande valore di impegno
civile, politico. Fondamentale per la storia della nostra lingua. (Ed è sulle
tracce dantesche che nel 1991 ho scritto “Vita novisssima”). Dopo Dante, venne
il travolgente impegnato Majakovskij,
il mesto lucido Pavese, e tanto folle Breton. (me li leggevo tutti ad alta
voce, davanti allo specchio del mio armadio in camera), prima di approdare ai
Novissimi (a quel tempo affidavo le letture alle registrazioni su cassette, che
non so se siano ancora utilizzabili - qualcosa dovrebbe essere sopravvissuto
nel mio canale Youtube). Ma i Novissimi sono stati la stazione di posta di un
viaggio che continua, e di cui la mia rassegna su Twitter (“Poesia immortale”)
è un resoconto. Con una peculiarità costante. Di essi la mia memoria,
drasticamente selettiva in tutto, conserva solo il filo utile a tessere la mia
tela.
Cosa
significa per te essere poeta? Che valore ha oggi la poesia, in Italia?
Essere
poeta è per me andare alla ricerca di sé e di noi negli altri per stringere un
patto di alleanza, di solidarietà che ci aiuti a vivere tutti al meglio. Ma
oggi temo che questo mio ideale venga fortemente disatteso. La poesia ha,
troppo spesso e ancora, il ruolo di un ditino linguistico alzato nella scalata
sociale (come nel più lontano inizio), o di un pennacchietto distintivo sul
cappello, che senza la dovuta consapevolezza di un’operazione salvifica da
svolgere, con spirito di umiltà e servizio collettivo, rischia di rimanere
vanitas vanitatum. Manca per me un progetto permanente d’avanguardia, non come
pedissequa ripetizione del già dato, ma come adeguamento ai tempi correnti.
Rientra
in questo progetto l’Umafeminità?
Sì.
Se lo si applicasse ci sarebbero sviluppi positivi straordinari. Umafeminità è
un neologismo che rimanda ad un progetto etico - linguistico che si basa sulla
lotta radicale al sessismo linguistico e quindi prefigura un impegno sociale
ampio. Rosa Luxemburg ha detto che il primo atto rivoluzionario è chiamare le
cose con il loro nome. Ebbene umanità è un termine falso, fuorviante, frutto di
un sopruso, va quindi modificato, integrato. Rettificato. Umanità infatti
discende da humanitas (da cui homo), che è la
traduzione latina dell’ebraico adamà , la terra fertile,
l’entità duplice, creata da Dio, al sesto giorno, secondo la Genesi, e che
nessuna traduzione comune riporta (limitandosi tutte ad un
generico maschio/femina- non uso il raddoppio della emme in quanto lo
ritengo volgare).
Nel
momento in cui il primo maschio ha ascritto a sé questo nome, chiamandosi
Adamo, ha di fatto estromesso la femina che ne faceva parte. Non solo, ha poi
addirittura avocato a sé la prima procreazione, proclamandosi fonte della
creatura femina /Eva. Pura mistificazione. Mentre in realtà l’ha uccisa, con
tutte le conseguenze negative sotto i nostri occhi. Il conflitto tra i due
sessi non si è ancora sanato. Ebbene solo riportando alla luce nel nome il
soggetto soffocato “fem” (uma-fem-inità) si potranno riprendere correttamente i
rapporti tra le due parti contendenti. I linguisti sono tutti d’accordo nel
dire che ciò che non si vede non esiste. Dunque per riportare la donna nella
giusta considerazione, e nel giusto livello, va contemplata già nel nome che
indica la specie. Umafeminità appunto. Così da relegare umanità per l’insieme
degli uomini e feminità per l’insieme delle donne.
Questo
è il libro che meglio ti rappresenta?
Credo
di sì, anche se mi è particolarmente caro “Vita novissima”, perché costituisce
il mio sdoganamento dalla neoavanguardia e l’inizio di un percorso
linguisticamente e eticamente nuovo, sempre nell’ambito dell’avanguardia, che
sogno ancora come contraltare indomito, polimorfico, permanente (niente
exploit/contentini all’insofferenza oppositiva), del mutante capitalismo a cui
si oppone. Ma sono molto sola, senza possibilità di successo alcuno della
mia utopia. E questa piena coscienza mi toglie spesso il fiato.
Il
29 aprile ricorre l’anniversario della scomparsa di Marcella Continanza,
poetessa e giornalista, alla quale tu eri particolarmente legata. Vuoi parlarci
di lei?
Marcella
Continanza è stata un’amicizia breve ma intensa. Mi telefonò espressamente per
conoscermi, nel 2011, e poi le sue lunghe telefonate sono diventate una
piacevole consuetudine, sempre più attesa. Ci siamo raccontate la nostra vita
per telefono, e ci confrontavamo su tutto, come vecchie amiche. Ricordi e sogni
personali, considerazioni esistenziali, sociali, politiche, possibili progetti
da svolgere insieme. Spesso parlavamo di cinema e poesia, amori
condivisi.
Ho
saputo così del suo lavoro giornalistico, da professionista, in ambito
culturale, a Como e Venezia; del matrimonio naufragato; della delusione cocente
per aver perso la direzione della prima rivista di cinema in edicola «Vietato
fumare: tutto cinema e dintorni» (rilevata da Berlusconi), e che l’aveva spinta
a espatriare, quasi un esilio; del suo intenso impegno per fondare
l’Associazione “Donne e poesia Isabella Morra” (in omaggio alla sua conterranea),
una volta trasferitasi a Francoforte sul Meno, dove contava sull’appoggio
del fratello Francesco, cui era legatissima. E dove lei è diventata, come ho
potuto appurare, un punto di riferimento importante per le italiane in
Germania. Di qui, nel 1997, la fondazione di «Clic Donne 2000 Giornale delle
italiane in Germania», suo orgoglio fortissimo, per il ruolo aggregante e
antropologico quasi che svolgeva. E nel 2008 la nascita del Festival di poesia
europea (al quale partecipai nel 2012).
Mi
sollecitava spesso a mandarle degli articoli, e poi a redigere gli editoriali.
«Mi raccomando sii tosta come sai essere tu» mi diceva spesso, prediligendo, su
molti temi, che concordavamo talora insieme, una linea dura. Ma lei, assetata
di giustizia e di un mondo pulito, stretto nella solidarietà (punti sui quali
convergevamo), era in fondo tenera e fragile, come la Sibilla di un suo
recente lavoro, che calata nella realtà dei nostri giorni, totalmente spaesata
come qualsiasi migrante, camminava incredula, triste e stretta nella sua
insicurezza, in una «metropoli senza frutti / senza oracoli da vantare»,
cercando di alleviare il «chiodo della vita» con la poesia.
L’ho
sentita l’ultima volta il 15 febbraio dello scorso anno, faticava a parlare.
«Che hai, le ho subito detto, sei raffreddata? ». Non mi ha risposto e
questo mi ha amareggiata, non comprendendone assolutamente il motivo.
Sbrigativa quasi mi ha detto: «Per aprile dobbiamo uscire con Clic. Mi fai un
editoriale su Frida Kahlo? » (pare ci fosse una qualche mostra per quel
periodo, a Francoforte). «Sì, ma relativamente alle sue poesie», ho promesso
per passare subito, per l’affanno eccessivo, e i forti rantoli, a chiedere di
nuovo della sua salute: «Ma che c’è? non stai bene? ». Nessuna risposta.
Solo «Ciao filosofa di umafeminità». Niente altro. Eppure già sapeva di essere
gravemente malata, che era a casa per aver firmato per uscire dall’ospedale (me
l’avrebbe detto poi il fratello).
Non
aveva avuto la forza di confessarmelo, ma aveva voluto comunque sentirmi, aver
il brivido di discutere ancora il palinsesto, e salutarmi un’ultima volta, con
quella specie di investitura che sul momento mi era parsa, tra i silenzi, quasi
uno scherno. Io pigra come sono, mai immaginando che non stesse bene, ho
aspettato, come tante altre volte, un altro suo sollecito per scrivere il
pezzo, e non sentendola più ho pensato anche che avesse cambiato programma.
Invece aveva cambiato luogo. Se n’è andata per sempre, il 29 aprile, con le sue
“scarpe di mare”. A caccia con la sua Sibilla di risposte definitive.
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