La poesia dell'afasia linguistica: Una nota su Amelia Rosselli


 La poesia dell'afasia linguistica: 
Una nota su Amelia Rosselli

di Erminia Passannanti


“Dubbio, finezza, battaglie e contraddizioni”, nella poesia di Amelia Rosselli

La lingua che si traduce in scrittura poetica è un itinerario macchinoso – affettivo, esistenziale, ideologico, politico, e psichico, fatto innanzitutto di “dubbio”, “finezza”, “battaglie e contraddizioni” – che implica un percorso e dei modi che abbiano una vicenda d’evoluzione dai molteplici e mai garantiti esiti: così la poesia, che è esperienza, fatica, apprendimento e comunicazione dei passi compiuti, delle tracce seguite e di quelle lasciate dal poeta sul proprio cammino. Questo percorso, o viaggio, assume, di volta in volta, una data forma, ha delle tappe sue proprie, delle svolte, parole-chiave, e vive anche dei rapporti interni a queste componenti. La forza espressiva del linguaggio poetico non è solo assicurata dalla competenza lessicale di un dato scrittore, ma dalla sua intensità percettiva, dal suo occhio come capacità di selezione dei segni da comunicare: è dunque unione di tecnicità e raffinatezza concettuale.
Coincidenza (o conflitto) di contenuto e forma, che assorbe e irradia intertestualmente altre sfere dell'esperienza scritturale, la poesia vive dell’intensità delle contraddizioni tipiche della vita che si manifesta oltre i codici della ratio; utilizza il generico come lo specifico, legami logici, che d’improvviso possono tradire lo schema iniziale e diventare equivoci, generando sorpresa e perfino non-sense. Quando volesse farsi messaggio esplicito, la scrittura poetica, quale istanza comunicativa, stabilisce contatti significativi con il mondo degli altri, di cui sempre ha bisogno: viene a un tacito patto con l’esterno, negozia la sua gamma di sistemi extralinguistici, il tempo e il luogo in cui, per esistere, la sua verità ha luogo. Ciò tuttavia avviene a vari gradi di negoziazione. Nello sperimentalismo, ad esempio, l’istanza comunicativa è in genere dissimulata, o data in modalità radicali.
In The Logic of Meaning (1969), Gilles Deleuze mette in evidenza, bergsonianamente, come il senso delle cose dipenda dal non-senso. Ciò avverrebbe a causa dell’attuale carenza di idee universali, che consentono alle realtà di superficie (ovvero l’apparenza priva di profondità) di avere la meglio su quelle collocate a livelli più profondi. Queste profondità al di sotto delle unità linguistiche, si distenderebbero come una landa di sabbie mobili, asemantiche, prive di significato, le quali impedirebbero l’instaurarsi di una opposizione autentica e significativa tra il mondo concreto e l’universo verbale, ovvero tra il simulacro di realtà scomparse e il loro eventuale significato di base. Ciò comporta, inoltre, la scomparsa di un linguaggio metalinguaggio, non essendoci profondità di senso oltre l’aspetto formale di superficie. In breve, l’unico senso possibile risiede nel simulacro stesso.
Da questa prospettiva, la poesia moderna è testimonianza della dimensione antagonista della realtà: parla della ragione come della follia e tenacemente mantiene fede alla concordanza degli opposti, concordanza che Deluze dà per scontata da una prospettiva negativa, che vede gli opposti assimilati e indifferenziati. Parlando del senso che riusciva o meno ad attribuire a certi suoi testi, rileggendoli magari in pubblico a mesi o anni di distanza, la Rosselli aggiungeva: ‘l’unico momento di assoluta sicurezza è mentre sto scrivendo’ (in Clandestino, p.11). La Rosselli negava la possibilità di reinterpretare a distanza, con la stessa coerenza dell’atto creativo al suo origine, il proprio uso estemporaneo, circostanziale del linguaggio poetico, manifestazione di quella superficie, o forma espressiva, di cui parla Deluze. Ella negava, in tal modo, la valenza universale del dire poetico in senso metafisico, simbolico, assoluto. In un’intervista con Giovanni Salviati, del 1991 pubblicata su Clandestino, dal titolo ‘Dal linguaggio dinamico della realtà’, la Rosselli così autodefiniva la sua scrittura: ‘La mia lingua poetica può avere persino intenti filosofici, ma simbolici no’. Con Variazioni è stata forse l’unica volta in cui ho avuto la sensazione di potere agire sulla realtà tramite la poesia.’ (Clandestino, 1/1997, p. 11).
Il linguaggio poetico è costituzionalmente instabile, ambiguo; si esprime attraverso immagini e locuzioni astratte, è figurativo, e insieme speculativo, trama una combinazione mai stabile di modi e d’usi. Questa elusività non va considerata indice di disordine, quanto piuttosto di progettualità, essendo legittimazione di scelte individuali che il poeta sa essere arbitrarie. Si tratta di un’ambiguità produttiva che appunto invita a intercettare una logica, un ordine, nell’apparente disordine. O almeno questa è una delle possibili esperienze della scrittura poetica. In quanto pensiero della forma che si traduce o meno in comunicazione, la poesia è fenomenologia mediata dal soggetto, possibilità che s’incista in una vicissitudine estetica, che è, al contempo, d’immanenza e trascendenza. La pagina, come ‘luogo’ di questo scambio, è, in qualche senso, il corpo stesso della percezione veicolata, un corpo che ha coordinate sue proprie; queste sono, come s’è detto inizialmente, parzialmente psichiche, modi d’essere che il linguaggio è chiamato a tradurre. La parola poetica ha occhi spalancati sul mondo che comunica, concretamente e per astrazioni, ma ciò non implica alcuna vocazione all’efficienza. La poesia può, infatti, aspirare ad una condizione sregolata, invalida. Il suo linguaggio può farsi afasia.
In Amelia Rosselli, questa sregolatezza possiede una trama di squarci immaginativi, trasfigurati da una condizione/modalità farneticante della voce narrante, contraddistinta da un linguaggio volutamente ossessivo, che definirei afasico, il quale si spinge oltre le regole del senso, pur non abbandonando spazi e tempi storici (‘pronta sarò riceverti con tutte le dovute intelligenze’). Questo genere di afasia non è prodotta da una deficienza nella percezione dell’Io, quanto piuttosto di una sua iper-funzione, che ne devia e amplifica i contorni, come in questa strofa da La libellula. Panegirico della libertà (1958), che è anche una dichiarazione di poetica. Bisogna, per capirne l’intertesto, citare un passo di Carlo Emilio Gadda, suo modello tacito, da Teofilo e metterne in relazione l’uso metacritico dell’immagine della libellula con il tema conduttore del poemetto:[1]

La vendetta salata, l’ingegno assopito, le rime
denunciatorie, saranno i miei più assidui lettori,
creatori sotto la ribelle speme; di disuguali
incantamenti si farà la tua lagnanza, a me, che
pronta sarò riceverti con tutte le dovute intelligenze
col nemico, –come lo è la macchina troppo leggiera
per tutte le violenze.

Pier Paolo Pasolini così commenterà questa scelta di stile: ‘In realtà questa lingua è dominata da qualcosa di meccanico: emulsione che prende forma per conto suo, imposseduta, come si ha l'impressione che succeda per gli esperimenti di laboratorio più terribili, tumori, scoppi atomici. (…) Sicché la lingua magma - la terribilità - è fissa in forme strofiche tanto più chiuse e assolute quanto più arbitrarie.’(P.P. Pasolini, 1963). E Pier Vittorio Mengaldo aggiungerà: ‘Scrittura-parlato intensamente informale in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione assoluta della lingua della poesia a lingua del privato’. Del 1976, la raccolta Documento contiene opere composte tra il 1966 e il 1973. Nel 1981, viene pubblicato Impromptu, un poema diviso in tredici sezioni, e nel 1983, Appunti sparsi e persi, scritti tra il 1952 e il 1963. Nel 1992, appaiono in raccolta i versi di Sleep, in inglese.
Autrice di una scrittura contenente codici e sottocodici d’intricata decodificazione, la Rosselli attingeva, dunque, ad una vasta gamma di soluzioni formali, con un sottrarsi e ritrarsi della scrittura intorno alle forme canoniche del linguaggio poetico. Si tratta spesso di meccanismi di inversione e sostituzione, che hanno attinenze con il linguaggio afasico. Partendo dalle condizioni strutturali della lingua, Roman Jakobson ha ipotizzato due diversi tipi di afasia che la psichiatria ha in seguito verificato. L'afasia come o perdita della funzione selettiva o della funzione associativa del linguaggio in senso strettamente logico.[2] Si noterà come nei versi afasici della Rosselli, la voce narrante, nonostante continui a poetare, a parlare, dunque a volere comunicare, sembri esercitare un controllo solo marginale sulla miriade di significati che gravitano intorno alle metafore e alle metonimie che impiega o che salgono in superficie dal pozzo della coscienza. Per contrasto, si noti invece la lucida metapoeticità di quest’altra poesia da Serie ospedaliera, che gioca anche un suo ruolo di tragica, ‘post-classica’[3] teatralità (‘vidi le muse affascinarsi, stendendo veli vuoti sulle mani’):

Cercando una risposta ad una voce inconscia
o tramite lei credere di trovarla — vidi le muse
affascinarsi, stendendo veli vuoti sulle mani
non correggendosi al portale. Cercando una riposta
che rivelasse, il senso orgiastico degli eventi
l’ottenebramento particolare d’una sorte che
per brevi strappi di luce si oppone — unico senso
l’azione prestigiosa: che non dimentica, lascia
i muri radere la pelle, non subisce straniamenti.

La Rosselli afferma questa logica (‘che non dimentica’, ‘non subisce straniamenti’), e lo fa in modo sperimentale, come conferma il teso, asimmetrico recitativo (‘brevi strappi di luce’) in cui produce un poemetto come La libellula (1958): all’espressione di un’idea (poetica) fa subentrare un’elevata densità di figure retoriche, quali occasioni fornite dalla lingua, mai rinunziate. Così sceglie un termine anziché un altro in modo apparentemente arbitrario, o scambia una data parola con un’intera espressione dal vasto menù paradigmatico che la lingua offre. Al contempo associa sintagmaticamente una parola arbitraria ad un’altra parola altrettanto arbitraria al fine di generare senso. Le possibilità di queste scelte selettivo-paradigmatiche, afferma Jakobson, fondano la creazione delle metafore, in quanto offrono questa possibilità di libera sostituzione, come nel caso del verso ‘non si ride se la gioia è una giostra disoccupata’ (La libellula), laddove ‘giostra’ sta per ‘esistenza disoccupata’, e lo stesso accade con le possibilità delle scelte associativo-sintagmatiche che creano una ricchezza metonimica, come nel verso ‘rovina l’inchiostro che si fa beffa della tua ingratitudine’ (La libellula). Ne deriva una spiccata ricchezza simbolica e immaginifica, essendo, il linguaggio non partecipe dell'obbedienza alle norme imposte dallo strumento. Questo avviene a partire dal non rispetto del sistema convenzionale più vistoso della lingua, la sua sintassi – che viene distorta e riattivata all'interno di strutture mobili a variazione, costruite su complesse concatenazioni di frasi e periodi. 

A proposito del sistema alla base di di Spazi metrici

Per spiegare lo stile afasico della Rosselli alla luce della concezione che Michael Foucault ha della discontinuità della storia e della lingua – va precisato che la struttura epistemica alla base della sua scrittura sembra negare, e insieme esaltare, la relazione tra le cose e le parole che le designano, facendo appello piuttosto alla grammatica preposta alla loro relazione. Rosselli definiva così li suoi procedimenti: ‘la lingua in cui scrivo volta a volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di tutti i popoli e riflettibile in tutte le lingue’. Partendo dalla polifonia degli idiomi appresi, la Rosselli si avvalse, dunque, di questa ricca varietà di materiali linguistici, per ricondurli all'amalgama postmoderna, a cui faceva riferimento nella sua nota critica Pasolini. Pertanto, si può parlare di una versificazione apparentemente sciolta, ma al fondo salda e coerente, traccia di una ‘logica associativa’ che, sistemata in poetica, riconosceva all'assemblaggio lo spirito autentico del moderno postumo, come nelle liriche di Variazioni belliche (1959) e Diario ottuso (1968):

‘(o vita!)
non stoppano, allora sì, c'io, my
ivvicyno allae mortae! In tutta schiellezze mia anima
tu ponigli rimedio, t'imbraccio, tu, -
trova queia Parola Soave, tu ritorna
alla compresa favella che fa sì che l'amore resta.’

La destituzione dell’Io, il suo andare verso la ‘mortae’, è parodiato dall’uso eccentrico e insieme gergale del linguaggio (‘non stoppano’, ‘tutte sciellezze’, ‘t’imbraccio’) che volge all’interno la direzione di senso, come nelle forme afasiche. Si potrebbe suggerire che in questa stanza ha luogo una relazione linguistica che lingua a lingua, di ‘traduzione’, come recita il verso ‘trova queia Parola soave!’. Questo tipo di espediente, che devia le relazioni linguistiche, assiste a una dissoluzione dell’equilibrio tra lingua e lingua, e tra diversi stati della stessa lingua (Lecercle, 1985, p. 38). La dissoluzione dell’equilibrio di senso tra la parola e le cose si ricompone nel linguaggio poetico come ‘Parola Soave’ che non è debitrice al mondo reale ma al linguaggio poetico in quanto tale (‘’Sono metafore che ho imparato a trascrivere con lo studio del surrealismo’; mio il corsivo)[4]. Importante in questa dichiarazione della Rosselli la sorpresa che l’autrice mostra nei confronti de La libellula, che definiva un testo ‘trascritto’, come se appartenesse ad un’altra persona (suggerirei, forse, l’ipotesi di una poesia coordinatasi come testimonianza: del linguaggio impiegato da un paziente psichiatrico? Dalla madre stessa dell’autrice?).
L’improvviso manifestarsi della ‘favella’ ardente, libera e scellerata, a scapito della realtà, non è un’occorrenza insolita nei versi rosselliani. Anzi si dà come ipercoscienza della vocazione poetica, avvertita come responsabilità (‘alla compresa favella che fa sì che l'amore resta’). Ne deriva che l’attitudine di questa ossessiva ipercoscienza linguistica condizioni direttamente il giudizio sulla realtà anche nel lettore quale esito di una complicazione comunicativa ineludibile. Il giudizio ordinario viene ad apparire superfluo, ingombrante, perfino in qualche senso difettoso, carente, dinanzi a questo sistema di controllo autoflesso, che genera una dinamica di continuo sospetto verso il reale (‘mia anima’ […] ‘tu ponigli rimedio, t'imbraccio, tu’). La libellula, il poemetto del 1958, infatti recita:

E cos’è quel
lume della verità se tu ironizzi? Null’altro
che la povera pegna tu avesti dal mio cuore lacerato.
Io non saprò mai guardarti in faccia; quel che
desideravo dire se n’è andato per la finestra,
quel che tu eri era un altro battaglione che
io non so più guerrare; dunque quale nuova libertà
cerchi fra stancate parole?

Le immagini di guerra sono quelle di una lotta radicale che, combattuta interiormente, dubita ora dei propri esiti ma forse meno dei suoi strumenti (‘quale nuova libertà cerchi fra stancate parole?’). Louis Sass, in Madness and Modernism (1992), indica la presenza, e la cura, di un ‘doppio registro’, in quei fenomeni del linguaggio presenti nella schizofrenia. Nei versi de La libellula, la Rosselli propone un’identità che si concede al delirio verbale, una voce che è insieme è sua e ‘altra da sé’, la quale rende il poemetto un monologo drammatico, trascrizione di una follia di cui potrebbe essere stata non già protagonista, ma spettatrice. Si avverte un’identificazione non senza riserve, in quanto il testo sospende il giudizio, proponendo interrogativi (‘E cos’è quel/lume della verità se tu ironizzi?’). Due versioni della realtà per due registri, dunque, che tuttavia non godono dello stesso statuto. Uno è quello della scrittrice, l’altro dell’io narrante, fittizio, incredulo.

Vale l’osservazione di Charles Baudelaire sull’esistenza di un’estetica, o di un ordine, ‘impossibile da confinare in una definizione’, inattuabilità, proprio per questo, fondante per la poesia. Il linguaggio della Rosselli si rifiuta di concedere giustificazione ai suoi nessi, di sistemarli in un organismo logico dichiaratamente metafisico, anzi li pone come rimemorazione, automatismo dell’esistenziale-affettivo. Ciò che lo stimola è la fenomenologia del ricordo, verbalizzato tramite catene associative solo ingannevolmente spontanee. Infatti, non si tratta di un abbandono della parola ai percorsi sconnessi della memoria, ma di una riconquista di ciò che sembrava destinato alla deriva, come accade alla mente afasica nella sua quotidiana lotta per la riconquista della facoltà della parola. La sperimentazione della parola 'soave' è esperienza dell'informazione data all'esterno della memoria personale e collettiva che si vede dispersa e, quindi, ricongiunta al cuore dell'afasia; esperienza, questa, forse, pre-verbale, appartenente alla libido pre-edipica, fuori e oltre la trappola logica del linguaggio quotidiano, e dunque abitatrice del procedimento poetico stesso:

Non da vicino ti guarderò in faccia, ne da
quella lontana piega della collina tu chiami
la tua bruciata esperienza. Colmo di rimpianto tu
continui a vivere, io brucio in un ardore che non
può sorridersi. E le gioconde terrazze dell'invernale
rissa di vento, grandine, e soffio di mista primavera
solcheranno il suolo della loro riga cruente. Io
intanto guarderò te piangere, per i valli
del tuo istante non goduto, la preghiera getta tutto
nelle sozze lavanderie di chi fugge: prega tu: sarcastica
ti livello al suolo raso della rosa città di cui
tu conosci solo il risparmiato ardore che la tua viltà
scambiò. (da Variazioni belliche, 1959)

Come nota Keith Sagar, “tragic art is a sort of intentional schizophrenia, giving an intelligible context to experiences otherwise chaotic and terrifying, objectifying them in images and myths, distancing, creating a space for contemplation, transforming chaos into clarity or harmony.”[5] Si tratta di un metodo che, annientando lo spazio tra il significante e il significato, indica l’intima relazione tra l’individuo e il Caos attraverso un atto sacrificale: ‘Io brucio di un ardore che non può sorridersi.’
La parola poetica viene, qui, offerta in forma di codice (‘le gioconde terrazze dell’invernale/rissa di vento, grandine, e soffio di mista primavera’), come a difendersi da un ascoltatore nemico, presentando la lotta per la vita come la preoccupazione primaria della voce monologante, come lasso ineffabile e incerto tra nascita e morte. Per questo motivo, in una simile penosa esperienza esistenziale (‘che tu chiami/la tua bruciata esperienza’), ogni verso sembra contenere un segreto, ma di eccellenza estetico-contenutistica del linguaggio, che si pone come crogiolo della metafora allo stato puro.
Nella scrittura del delirio, nel suo tendere ad un acme ermetico (‘The literature of Dèlire’, Lecercle, 1995), la lingua cessa di essere strumento: essa è la sorgente stessa della poesia: la follia e la poesia sono entrambe esperienze in cui la lingua si manifesta in modo inconsueto, anomalo. La poesia si lascia, in tal modo, attraversare dal linguaggio, che in essa realizza le sue potenzialità. Nella poesia della Rosselli, le norme che regolano la parola ‘soave’ sono quelle che, pur dandosi sotto forma di follia, acquisiscono piena legittimità di senso, in quanto facenti parte di un sistema in cui nuove modalità espressive hanno luogo. Queste, simulando l’afasia, sono evidentemente artificiali. Tali norme non fanno a meno del discorso come traccia di una nostalgia dell’indifferenziato, dell’arbitrario, del dominio del canto spogliato dell’arroganza dell’ordine retorico.
D’altra parte, chi cerchi un’analogia tra vita e poesia, noterà come la vita, nella lirica, varchi sempre la soglia della propria rappresentazione logica, per diventare discorso arcano e straniato. Al tema della parola ‘soave’, si aggiunge quello più squisitamente psicologico della ricerca di una rigenerata identità artistica, la quale appare ricomposta solo dopo la sistematica scomposizione delle vecchie istanze liriche. Tale rigenerazione non è solo l’esito di una sbrigliata potenza fantastica, ma di un nuovo modo di pensare e verbalizzare l’essere, che si fonda nella sua stessa possibilità. La poesia parla appunto della fine di un discorso che non si può più dire e l'inizio di una prospettiva la quale, benché distorta e lesa, pure ha una valenza rivelatrice, rigeneratrice:

‘O rondinella che colma di grazia inventi le tue parole e fischi libera fuori...’
I limiti del linguaggio e della funzione poetica sono in questi versi travalicati con leggerezza, come di una tragedia tradotta in autoparodia, e posta a distanza: la parola ‘soave’, 'la grazia', 'l'invenzione', 'il fischio' canzonatorio pagano il riscatto e offrono al linguaggio della Rosselli quella libertà espressiva che seppe amministrare in senso autenticamente sperimentale.


Erminia Passannanti©2003 [Oxford, 8 gennaio, 2003]
Erminia Passannanti è tutor di Comparative Literature and Literary Theory presso il St Catherine’s college (University of Oxford), UK.


[First published in Punto di Vista, N. 39, Gennaio-Marzo 2004, Padova: Libreria Padovana Editrice, 2004]

See also: “Erminia Passannanti, “Spazio e spazialità nella poesia di Amelia Rosselli: La libellula e Serie ospedaliera”, in Laura Incalcaterra McLoughlin, Spazio e spazialità poetica nella poesia del Novecento. Saggi su Fortini, Montale, Rosselli, Ungaretti, Padova: Libreria Padovana Editrice, 2005.


Tra le opere di Amelia Rosselli:
Rosselli, Amelia (jr) (1964), Variazioni Belliche, Garzanti;
– (1958, ristampa 1985), La libellula, Milano, Sellerio, con uno
scritto di Pier Paolo Pasolini;
– (1987) Antologia poetica, Giacinto Spagnoletti Editore;
– (1998), Le poesie, Tandello ed., Milano:Garzanti.


POESIE

da Serie ospedaliera (1969)

Cercando una risposta ad una voce inconscia
o tramite lei credere di trovarla — vidi le muse
affascinarsi, stendendo veli vuoti sulle mani
non correggendosi al portale. Cercando una riposta
che rivelasse, il senso orgiastico degli eventi
l’ottenebramento particolare d’una sorte che
per brevi strappi di luce si oppone — unico senso
l’azione prestigiosa: che non dimentica, lascia
i muri radere la pelle, non subisce straniamenti
da Documento (1976)
Ho venti giorni
per fare una rivoluzione: ho
altri venti giorni dopo la rivoluzione
per conoscermi
mio piccolo diario sentenzioso
Tana per
le fresche menti
le parole,
un pugno
chiuso che le garantisce
la mia più imbattibile ragione d’essere.
Il nemico le strappa le vesti
la felicità è un micro-organismo nell’interno
dell’infelicità
nel cimitero
non sa smettere di essere felice.
da Documento (1976)
Se mai nella mia mente disperazione
ebbe luogo: se mai nel mio cuore dubbio
ebbe posto: se mai nei miei piedi forza
urtò: se mai nella mia lacerata mente
si curvò l’uragano.
Se mai nel mio piede ebbe posto la violenza
era per sottrarmi agli altri che preparai
lo stambugio: se mai vi fu una violenza
era per prepararmi agli altri.
Se mai nella mia mente nacque il desiderio
d’essere io stessa vittima e carnefice
se mai nel mio cuore obbediva il carme
della desta porta alla speranza.
..............
Se nella notte sorgeva un dubbio su dell'essenza del mio
cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta
del bar vicino. Se dalla notte sorgeva il dubbio dello
etmisfero cangiante e sproporzionato, allora richiedevo
aiuto. Se nell'inferno delle ore notturne richiamo a me
gli angioli e le protettrici che salpavano per sponde
molto più dirette delle mie, se dalle lacrime che sgorgavano
diramavo missili e pedate inconscie agli amici che mal
tenevano le loro parti di soldati amorosi, se dalle finezze
del mio spirito nascevano battaglie e contraddizioni, -
allora moriva in me la noia, scombinava l'allegria il mio
malanno insoddisfatto; continuava l'aria fine e le canzoni
attorno attorno svolgevano attività febbrili, cantonate
disperse, ultime lacrime di cristo che non si muoveva per
sì picciol cosa, piccola parte della notte nella mia prigionia.

****

Per le cantate che si svolgevano nell'aria io rimavo
ancora pienamente. Per l'avvoltoio che era la tua sinistra
figura io ero decisa a combattere. Per i poveri ed i malati
di mente che avvolgevano le loro sinistre figure di tra
le strade malate io cantavo ancora tarantella la tua camicia
è la più bella canzone della strada. Per le strade odoranti
di benzina cercavamo nell'occhio del vicino la canzone
preferita. Per quel tuo cuore che io largamente preferisco
ad ogni altra burrasca io vado cantando amenamente delle
canzoni che non sono per il tuo orecchio casto da cantante
a divieto. Per il divieto che ci impedisce di continuare
forse io perderò te ancora ed ancora - sinché le maree del
bene e del male e di tutte le fandonie di cui è ricoperto
questo vasto mondo avranno terminato il loro fischiare.

****

Dentro della grazia il numero dei miei amici aumentava
e la gioia filava storie d'amore impossibili. Dentro della
grazia tormentava il povero il ricco e il cappello si levava
in atto di pura gratitudine. Dentro del Tao scemava la
noia fuori della grazia rimava il poeta assassinato. Dentro
della grazia corrompeva i mobili l'uccello passaggiero
ieri l'altro ieri v'era una bussola che guidava, oggi la
pioggia scorre con tristezza e le promesse dei ricchi sono
una luce che non corrisponde. Vicino alla grazia l'amore
giaceva dentro della grazia stonava ogni fiore e nell'alba
corrompeva ogni luce l'inferno. Fuori dal furore percorreva
sinistramente la strada maestra di tutte le nostre furie
un uragano. Tale è la nascita - tale è la rivincita dei
poveri di spirito. Contro dello spirito di misericordia
si levava unanime il mio cuore salace che scendeva toccato
dalla grazia ma non ritrovava il sole delle giornate salvo
in un grido d'affari. Per ritrovare il Caos bastava la
nota del danno. (L'indifferenza stessa.)

****

Stesa a terra pugnalavo il mio miglior amico. Ma gli affari
restavano quelli che erano. Risollevavo il miglior amico
ed egli mi piantava una grana che non finiva più, luce
negli orecchi che non si scandalizzavano. Finiva la gran
gloria in una bottiglia di cognac. In una bottiglia di
cognac finiva la parabola del pescecane che non ammetteva
disordine. L'ascesi era finita ma il gran dio non si sobbarcava
facilmente a grandi fatiche inutilmente. Gli alberi tornando
a casa erano delicatissimi. Io ero delicatissima tornando
a casa! io giacevo supina come una mosca imbrattata di
miele. Lui era il mio re debolissimo io la sua regina imbrattata
di sangue. Tu sei il mio re debolissimo imbrattato di porpora!
Chiudiamo un occhio su delle camorre dei pittori. Chiudiamo
le palpebre su delle camiciette delle signore. Chiudiamo
bottega e spariamo. Spariremo nella bruma con la revolverata
discesa a terra.
****
Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell'incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.

****

Contiamo infiniti morti! la danza è quasi finita! la morte,
lo scoppio, la rondinella che giace ferita al suolo, la malattia,
e il disagio, la povertà e il demonio sono le mie cassette
dinamitarde. Tarda arrivavo alla pietà - tarda giacevo fra
dei conti in tasca disturbati dalla pace che non si offriva.
Vicino alla morte il suolo rendeva ai collezionisti il prezzo
della gloria. Tardi giaceva al suolo che rendeva il suo sangue
imbevuto di lacrime la pace. Cristo seduto al suolo su delle
gambe inclinate giaceva anche nel sangue quando Maria lo
travagliò.
Nata a Parigi travagliata nell'epopea della nostra generazione
fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti
e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro.
Scappata dall'Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa
nell'Ovest ove niente per ora cresce.
Il caffè-bambù era la notte.
La congenitale tendenza al bene si risvegliava.

****

Se l'anima perde il suo dono allora perde terreno, se l'inferno
è una cosa certa, allora l'Abissinia della mia anima rinasce.
Se l'alba decide di morire, allora il fiume delle nostre
lacrime si allarga, e la voce di Dio rimane contemplata.
Se l'anima è la ritrosia dei sensi, allora l'amore è una
scienza che cade al primo venuto. Se l'anima vende il suo
bagaglio allora l'inchiostro è un paradiso. Se l'anima
scende dal suo gradino, la terra muore.
Io contemplo gli uccelli che cantano ma la mia anima è
triste come il soldato in guerra.

****

Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza
dei sensi caddero tutte le giornate. Dopo l'inchiostro
di Cina rinacque un elefante: la gioia. Dopo della gioia
scese l'inferno dopo il paradiso il lupo nella tana. Dopo
l'infinito vi fu la giostra. Ma caddero i lumi e si rinfocillarono
le bestie, e la lana venne preparata e il lupo divorato.
Dopo della fame nacque il bambino, dopo della noia scrisse
i suoi versi l'amante. Dopo l'infinito cadde la giostra
dopo la testata crebbe l'inchiostro. Caldamente protetta
scrisse i suoi versi la Vergine: moribondo Cristo le rispose
non mi toccare! Dopo i suoi versi il Cristo divorò la pena
che lo affliggeva. Dopo della notte cadde l'intero sostegno
del mondo. Dopo dell'inferno nacque il figlio bramoso di
distinguersi. Dopo della noia rompeva il silenzio l'acre
bisbiglio della contadina che cercava l'acqua nel pozzo
troppo profondo per le sue braccia, Dopo dell'aria che
scendeva delicata attorno al suo corpo immenso, nacque
la figliola col cuore devastato, nacque la pena degli uccelli,
nacque il desiderio e l'infinito che non si ritrova se
si perde. Speranzosi barcolliamo fin che la fine peschi
un'anima servile.

****

Ma se la morte vinceva era la corrosione ad impedirmi di
rivelare agli altri ciò che mancava in me. La scienza dei
numeri era la mia fortitudine, la scienza degli amori la
mia debolezza. Io non sono un Cinese! Non ho potere! Le
mie condizioni sono di naufragare! Nel naufragio della
grande rondine che sorvolava su della mia testa veramente
tonda era il segreto della mia misantropia. Cantavo storie
e scendevo di un gradino ad ogni mal passo. Su della mia
testa veramente tonda nasceva il quadrato della certitudine.
Se nella testa veramente tonda nasceva il ritorno impossibile
alle antiche maniere allora nella mia testa veramente tonda
cadeva il grano il sale di Dio, l'ultima miniera. Se nella
tonda testa di Dio era l'incremento della giornata allora
nelle smorfie dei giovani intravvedevo la bontà. Ma la
pece, il nero, la grandine, le sfuriate, la rivolta, la
cannonata, il paese fuori di sé controllava ogni mia mossa.
Antica civiltà descritta nei libri tu sei la rivolta che
non si fece domare, tu sei il mare che tinge di rosso la
sfuriata dei venti e porta all'alba una canzone.

****

Se nella notte s'accendeva un faro, allora addio promessa
addio la scarpa dell'oblio, addio la lusinga di chi gioca
preso dalle antifone dei suoi compagni. Compagna d'armi
la tua costanza, la tua fiducia sono nelle mie mani? Calmati
e l'eroe che ero io diventerà la bestia che più nulla vuole.
Calmati e le scodelle dei poveri si riempiranno. Calmati
e le ventate in poppa separeranno la tua firma dalla mia,
il tuo disdegno dai mio farraginoso chiedere, disobbedire,
salvare, domandare - eccitare alla lotta una massa di gente
che non sa esistono i poveri, le martellate - le costruzioni
in calce per la povera gente che non si illude, ma delude
il raggio di sole che non era stato costruito per loro.
Calmati e avrai il vento in poppa e le tue parole fresche
di verginità rimeranno con nuova gentilezza. Parola mia
che tutta la stanchezza ora si rifà ai poveri. Domando
perdono per essermi nutrita di erbe selvatiche, e riporto
la pena ad un altro servizio. E riporto la iena ad un altro
fumare, incenso per i magazzinieri.

****

Contro del magazziniere si levava il grido dell'incoscienza
contro del pourboire coniavo un'altra frase, quella dell'incertezza.
Contro dell'odio ringraziavo e perdonavo, contro della
tristezza imbracciavo un altro pugnale. Contro delle lacrime
furtive innalzavo la veracità; contro della lacrima del
soldato una ragazza potente che non sapeva nemmeno dov'era
l'usignolo, l'usignolo potente e solitario. In nome di Cristo
e della Vergine Maria che la tua santità sia fatta, così
com'è il gioco di ogni giorno. Contro della debolezza che
si rinsaldj la fede, contro dell'elefante traboccante di
odio che sia fatta la volontà del cane che seppe quale
pesce pigliare. Trappola tesa ad arco rialzati e perdona
con un grido di allarme. Se sovente nella birra scorgevo
piccoli grappoli d'oro era invece la grazia che balbettava
parole sconnesse: fuori del linguaggio dei sensi abbandonati.

****

In preda ad uno shock violentissimo, nella miseria
e vicino al tuo cuore mandavo profumi d'incenso nelle
tue occhiaie. Le fosse ardeatine combinavano credenze
e sogni - io ero partita, tu eri tornato - la morte
era una crescenza di violenze che non si sfogavano
nella tua testa d'inganno. Le acque limacciose del
mio disinganno erano limate dalla tua gioia e dal
mio averti in mano, vicino e lontano come il turbine
delle stelle d'estate. Il vento di notte partiva e
sognava cose grandiose: io rimavo entro il mio potere
e partecipavo al vuoto. La colonna vertebrale dei
tuoi peccati arringava la folla: il treno si fermava
ed era entro il suo dire che sostava il vero.
Nell'incontro con la favola risiedevano i banditi.

****

Fra le stanze che oscuravano la mia viltà ve n'era una che
rimbornbava: era la notte. Io mi fingevo pazza e correvo a
sollevare i pazzi dal suolo, come fiori spetalati. Non era
luce che si dibatteva tra i cristalli, era la mia volontà
di sopravvivere! e tu gagliardo incoraggiavi con una lesta
manciata di monete incastrate nel mio desiderio dite che
ombreggiavi nell'infinito. Io ero la tua stupidella che rimava
a quattr'occhi nella sua cella di granito solidale agli
affreschi ed affetti degli solitari. Ma tu perdonavi e rincorrevi
l'anniversario della Luna che fra di molti biascicamenti sollevava
il sole dal suo candelabro. Tu non eri la mia chiesa eri
il mio demonio e la notte regina durava da eterno e mi rimaneva
in gola il sapore della tua forzata risata che s'oscurava
al levarsi del levante in una polveriera.
Tramite il riso in gola s'oscurava la mia gioventù. Tu la
risollevavi, silenziosa - nella sua castella delle abitudini.
Dormire forzare il demonio ad accaparrarsi i brandelli della
mia pietà, - dormire in una stanza ricoperta di tela e di
arabeschi potenti come lo zigomo della tua taccia.

****

La mistica del cervello. La luce del demonio sollevava polvere
negli occhi impuri della mia fecondità. Io ero tremante d'invidia
ma il raggio solare sollevava anch'esso storie d'amore tenue
come il pero con i suoi fiori incantati, come il pane di
sera che s'ingrana nelle faccende nostre d'amore e di pietà
e di fame e di quadratura del circolo infame che noi solleviamo
al di sopra di ogni sapienza.
Incauta ricorrevo all'aldilà ma fui ben presto scottata da
mani invidiose. Le mie proprie mani mi riportarono a terra
le mie proprie unghie sollevarono da terra l'astro della
felicità. Torgono in mano i lumi i santi ed i sapienti, torgono
in mente i lumi i negri e le maestre di scuola e le rinvenute
dalle scuole di agricoltura.
Condannata a far finta mi risollevai dalla polvere ben presto
per inginocchiarmi alla fonte delle benestanti. Le protestanti
non attecchirono ormai più la mia freschezza ingenua e con
tutto candore perdonai ai più villani, vecchi digiuni. Cuore
che tanto digiuni scostati dalla rabbia e rimani potente
signore.

****

All'insegna del Duca di Buoninsegna, il duca guidava
le anime traverso labirinti di fame e di solitudine. Insegnava
come procacciarsi il cibo, le vivande per sopravvivere
Io perdevo del tutto il controllo delle mie azioni:
egli guidava, molto tranquillo e sicuro di sé. Io non cercavo
nessun piacere, nessuna gloria; ma il vento tirava molto
torte dall'oriente, e le vestali mi pregavano di salire
i gradini della chiesa bizantina. No! gridavo, e cadevo
prostrato alle loro ginocchia. Poi mi rifacevo il letto
da me. All'insegna del pesce il Duca Buoninsegna guidava
le anime semplici schiette e gentili all'insegna del Paradiso!
Trainava dietro di sé semplici giocattoli per i bambini.
All'insegna del buon pastore il duca del ~
con sé, molti bambini. Balocchi non ne attendevano fiori
e petali di grazia sì. Balocchi di grazia sì, fiori d'arando
no. Il Duca di Buonconsiglio stendeva molto rapidamente
le sue ali a proteggere i bambini. Fiori di grazia sì, petali
d'argento no.
Come un razzo nel cielo le mie sabbie movibili
come un bombardamento d'insetti la tua corta corte.


[1] Carlo Emilio Gadda, ‘Teofilo’, in The Edimburgh Journal of Gadda Studies, 1953, published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS), ISSN 1476-9859
http://www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/.
Gadda scrive: ‘Chi immagina e percepisce se medesimo come un essere “isolato” dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è “simbiosi con l’universo”. La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sì di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio metafisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto. Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me.’
[2] La metafora e la metonimia sono, secondo Jakobson, aspetti essenziali della lingua, indispensabili alle operazioni primarie di selezione e combinazione di unità linguistiche atte alla formazione di unità di significato più complesse. Un individuo che soffra di disordini associativi (di similitudine) o di un’incapacità di costruire metafore, mostra una difficoltà nella selezione termini appropriati, e dunque impiega al loro posto termini ‘a sorpresa’. Mentre gli individui che soffrono di una carenza di continuità mostrano una difficoltà nei confronti della natura associativa o metonimica del linguaggio, e si esprimono in modo da mettere in evidenza una perdita delle gerarchie linguistiche. Inoltre, Jakobson impiega questi due aspetti dei disordini afasici per connetterli a una tipologia letteraria, come quella della poesia simbolista, la quale è prevalentemente metaforica. A questo si aggiungono i meccanismi onirici di condensazione e dislocazione, desunti da Freud, come processi metaforici.
[3] La definizione è impiegata dalla stessa Rosselli nell’intervista condotta da Giovanni Salviati, ‘Nel linguaggio dinamico della realtà’, in Clandestino, I, 1997, p.12.
[4] Salviati, ‘Nel linguaggio dinamico della realtà’, p. 13.
[5] Sagar, p135.

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