FRANCO FORTINI - Arte poetica. Commento di Erminia Passannanti (Oxford, 2002)

FRANCO FORTINI

Arte poetica

Tu occhi di carta tu labbra di creta
tu dalla prima saliva malfatto
anima di strazio e ridicolo
di allori finti e gesti

tu di allarmi e rossori
tu di debole cervello
ladro di parole cieche
uomo da dimenticare

dichiara che il canto vero
è oltre il tuo sonno fondo
e i vertici bianchi del mondo
per altre pupille avvenire.

Scrivi che i veri uomini amici
parlano oltre i tuoi giorni che presto
saranno disfatti. E già li attendi. E questo
solo ancora è il tuo onore.

E voi parole mio odio e ribrezzo,
se non vi so liberare
tra le mie mani ancora
non vi spezzate .

 

Il tema principale del componimento non è in sé originale, poiché coincide con la materia stessa della riflessione poetica: la retorica e la stilistica. Tuttavia, sebbene il testo si configuri come discorso sull’arte poetica intesa come insieme di strumenti tecnici e formali, esso mette immediatamente in luce la natura conflittuale del rapporto che il poeta intrattiene con la propria materia: le parole, qui percepite come entità animate, dotate di una volontà autonoma. Le immagini, di forte intensità visionaria e spesso connotate da violenza, conferiscono al tono monologante del testo la funzione di rivelazione diretta della voce del poeta in quanto tale: “Tu occhi di carta tu labbra di creta/ tu dalla prima saliva malfatto”.
L’anafora che apre le prime due strofe svolge la funzione di specchio: l’autore si riflette e si auto-interpella, conferendo al “tu” poetico un valore metatestuale. L’espressione “occhi di carta” designa la coincidenza dell’io lirico con la propria scrittura, ossia con la parola fissata su supporto materiale, mentre “labbra di creta” allude a un discorso fragile, malleabile, continuamente modellato dalle circostanze interpretative. L’immagine della creta è polisemica: richiama tanto la duttilità dell’argilla viva quanto la rigidità e l’inaridimento conseguente al processo di essiccazione. Tale duplicità rimanda a un simbolismo di matrice antropogonica, evocando la creazione dell’uomo, qui però capovolta in senso negativo: non origine divina, ma fallimento, “un’anima che si strazia e che è anche ridicola”, perché consapevole del proprio dolore e nondimeno incline a incoronarsi di una gloria illusoria, fondata su “finti allarmi e rossori”.
Il poeta si rappresenta così, in chiave di auto-denuncia, come un uomo comune, lacerato, immerso nella comunità e gravato dalla responsabilità etica implicita nel proprio compito: un impegno che egli talvolta assume, talvolta rigetta, e in cui alternativamente confida o di cui diffida. La riflessione converge, come frequentemente accade in Fortini, sulla funzione stessa della poesia, sulla sua capacità di veicolare una verità mai garantita, sempre da verificare, e dunque sulla figura del poeta, la cui legittimazione non è mai definitiva.
L’atto creativo viene posto in questione: il “tu”, che destabilizza la retorica autocelebrativa del poeta, si estende fino a identificare l’uomo come “errore divino” (“dalla prima saliva malfatto”). In questa prospettiva, la metafora del “sonno”, presente nella terza strofa, assume rilievo: il sonno, inteso come morte o irrigidimento della materia, evoca l’inerzia della tradizione poetica quando non sia rinnovata da un’intenzione etica e da un dialogo effettivo tra generazioni (“Dichiara che il canto vero/ è oltre il tuo sonno fondo”).
La contrapposizione fra argilla e creta esprime così una tensione essenziale: da un lato, la malleabilità del linguaggio, capace di incarnare la vitalità dei sentimenti; dall’altro, la rigidità formale dell’istituzione letteraria, che cristallizza la parola poetica in norme e convenzioni, privandola di spontaneità.
Ne consegue che l’arte poetica, per Fortini, si configura come un problema di coscienza: un onere morale che al contempo affligge e ricompensa, grava e riscatta. In questa direzione è significativa la strofa conclusiva, che si riallaccia alla concezione classica del poeta come semplice tramite delle Muse: le parole, entità vive e ostili, diventano oggetto di ripulsa e di desiderio di liberazione (“E voi parole mio odio e ribrezzo? se non vi so liberare/ tra le mie mani ancora/ non vi spezzate”).
In tal modo Fortini riconferma l’idea che la poesia, lungi dall’essere un possesso pacificato, rimanga una tensione irrisolta, un compito etico e linguistico mai concluso, esposto al rischio e all’inciampo, ma proprio per questo necessario.

(Erminia Passannanti, da “La questione della forma nella poesia di Franco Fortini”, UCL, 2002)

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