Il mito dell’integrità nella poetica di Sylvia Plath, 26 february 2005.

 Il mito dell’integrità nella poetica di Sylvia Plath

 

di Erminia Passannanti  (con un inedito)

 26 february 2005.

 

Limite 

La donna è perfezionata.
Il suo corpo
Morto veste il sorriso del compimento,
L'illusione d’una necessità greca
Fluisce nelle pieghe della toga,
I suoi piedi
Nudi sembrano dire:
Siamo venuti da lontano, è finita.
Ciascun bambino morto,
Bianco serpente avvolto
Intorno al suo bricco del latte, ormai vuoto.
Li ha raccolti nuovamente
Nel suo corpo come petali d'una rosa chiusa
Quando il giardino si contrae 
E odori sanguinano
Dalle dolci profonde gole dei fiori notturni. 

La luna non ha niente di cui rattristarsi,
fissando dal suo cappuccio d’osso.
È abituata a queste cose.
Le sue zone d’ombra scricchiolano e attraggono.
 
Traduzione: Erminia  Passannanti©1995, in L’Immaginazione, da Sylvia Plath,  ArielFaber & Faber, 1965. 

 

 

 

La poesia “Edge” di Sylvia Plath, pubblicata postuma nella raccolta Ariel, nel 1965, a cura di Ted Hughes, rivela senza tema di errore il senso di un percorso compiuto verso la dissoluzione /esaltazione del soggetto. Oltre questo limite raggiunto, si apre l’estrema ricompensa destinata a chi abbia saputo portare a compimento il cammino dell’esistenza. Non è tuttavia la morte a conferire la perfezione, bensì la vita, lo sforzo, in divenire, compiuto dal corpo in questo suo viaggio obbligato. Senza volere andare troppo al fondo delle radici di questa visione, in questo scritto, diremo che vi si rintracciano Wallace StevensDylan ThomasDostoevskij e perfino Heidegger. Oltre alla loro influenza, emerge il mito plathiano dell’integrità, l’angelo riemerso dal caos dei frammenti, la “voce”, che l’autrice crede di sentire in “A birthday present”:


Cosa si nasconde dietro questo velo? È bello, è brutto?
Luccica, ha seni, bordi?

Sono certa sia unico, sono certa sia quello che voglio.
Mentre, tranquilla, mi do da fare in cucina, lo sento che mi guarda.

                                                               Lo sento che medita:
“È questa colei alla quale devo apparire,
E’ dunque costei l’eletta, la donna con nere occhiaie e cicatrici?”



Dall’ottica di questa Plath-Medea, l’obiettivo di "Edge" non è stabilire o presentare, ai fini autoterapeutici, i rischi a cui è andato incontro il soggetto, avendo erroneamente condotto la propria esistenza in base a valori illusori, ma redigere un atto ufficiale di raggiunto "compimento", qualsiasi ne sia il giudizio etico esterno. Il testo non è, pertanto, un grido di aiuto, ma un’ammissione epigrammatica, non di rinuncia a proseguire, ma di arrivo ad una meta irrevocabile: “la donna è perfezionata / [...] è finita.” Il piano di ricongiunzione al nucleo espressivo dell’essere (non solo femminile, materno) è attuato.

 

Scorrendo questi versi, non è errato ritenere di essere dinanzi ad un Io esistenzialista ed estremista, fatto di desiderio, introspezione e paradosso, che mentre tenta di raggiungersi come supremo atto di volontà, si contraddice. Questa lotta non si conclude con l’annientamento della singolarità, ma con la sua rimozione dalla sfera delle relazioni, e l’aspirazione della poesia all’unità e alla verticalità. Essere “eletti” dall’angelo della negazione significa pervenire all’assurdo della parola, ai suoi segni inequivocabili di “nere occhiaie e cicatrici”. Questo angelo è la poesia stessa, che pone l’artista nella condizione di potere pervenire alla suprema affermazione della propria singolarità, pur nel rifiuto del mondo e del suo senso.


Seguendo questa logica, dal punto di vista stilistico, si evidenzia l’abbandono dei toni e degli effetti surrealistici ed espressionistici, che la Plath aveva perseguito in altre liriche incluse nella stessa raccolta, come “Lady Lazarus” e “Daddy”. Si nota, invece, un’essenzialità fredda e una posa quasi classica. La stringatezza del recitativo, che si compone di versi brevi, privi di rime, porta avanti una dialettica negativa, lapidaria, una volontà di affermarsi, negandosi.


Sono cinque i personaggi principali che emergono dalle pagine di Ariel : la coppia coniugale (Sylvia e Ted), il padre e la madre di lei, e infine Assia, amante di Ted e, anch’ella, futura suicida. I soggetti parentali si delineano come nucleo iconico di un messaggio funesto (il cipresso e la luna), contro lo sfondo di una coppia di amanti vampireschi (Ted e Assia). L’impianto compositivo di questa dinamica letale di rapporti si focalizza su pochi elementi collaterali, tra cui il paesaggio della brughiera, da cui Plath fugge, i due bambini (i “bianchi serpenti”, in “Edge”),  gli specchi che ricordano la scissione che si vuole risolta, raggiungendo Londra. Ogni dettaglio gestito da un’intellettualità che tinge il mondo delle sue corrispondenze di rosso, nero e blu (“La luna e il cipresso”):

 

Questa è la luce della mente, fredda e planetaria.

Gli alberi della mente sono neri. La luce è blu.


L’artista, che aveva fino ad ora dato voce ad una protesta, occupa finalmente il centro della scena, riconsegnata a se stessa. Il sogno oltre il limite è forse quello di preservare la ricomposta integrità prenatale. La donna, con le caviglie e i piedi scoperti, è rappresentata con il ventre svuotato dei serpenti che ha dato alla luce, e ricolmato dei figli riassorbiti in forma di petali di rosa. Si noti, sin dall’inizio del testo, l’intenzione solenne dei gesti, in particolare del movimento delle pieghe della toga, che cadono sul corpo annunciato privo di vita.


La solennità caratterizza anche il sorriso-maschera, “indossato” dal “corpo morto”, che esprime al contempo autoapprovazione e sfida, come l’Aleksjèj Nìljic Kirillov dostoevskijano, di cui la Plath si era occupata per la sua tesi di laurea. La luna-madre non ha potere né di intervento né di giudizio, essendo adusa a questo genere di condotta da parte della figlia, attratta dal “crimine nero” delle maree (si veda allusioni alle maree in altre liriche della stessa raccolta). Il sangue sgocciola, battendo un tempo che procede oltre il soggetto, estinguendolo.


In questo esclusivo viaggio visivo nella casa della morte, intorno al cadavere di Plath suicida, ne ammiriamo, non senza un certo stupito orrore – come se fossimo noi a rinvenirne il corpo esanime – il sorriso-rivalsa, che l’autrice presenta non come malattia dell’anima, ma come suo garante. Questo sorriso enigmatico e pagano suggerisce, infatti, autoindulgenza verso i motivi della propria dissipazione, non più giustificata dal dolore dei “fatti”, ma da una profonda convinzione della perfezione raggiunta, e dal poterla fissare e celebrare nella morte come biografia d’artista.

 

[Erminia Passannanti©1995]

 

Edge

 

The woman is perfected.
Her dead
Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga,
Her bare
Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.
Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little
Pitcher of milk, now empty.
She has folded
Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden
Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.


The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.
She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.

 

 

Sylvia Plath, from Ariel, 1965.

Limite

 

La donna è perfezionata.
Il suo corpo
Morto veste il sorriso del compimento,
L'illusione d’una necessità greca
Fluisce nelle pieghe della toga,
I suoi piedi
Nudi sembrano dire:
Siamo venuti da lontano, è finita.
Ciascun bambino morto,
Bianco serpente avvolto
Intorno al suo bricco del latte, ormai vuoto.
Li ha raccolti nuovamente
Nel suo corpo come petali d'una rosa chiusa
Quando il giardino si contrae 
E odori sanguinano
Dalle dolci profonde gole dei fiori notturni. 

La luna non ha niente di cui rattristarsi,
fissando dal suo cappuccio d’osso.
È abituata a queste cose.
Le sue zone d’ombra scricchiolano e attraggono.

 

 

Traduzione: Erminia  Passannanti©1995

 

Un regalo di compleanno

 

Cosa si nasconde dietro questo velo? E’ bello? E’ brutto?

Luccica, ha seni, bordi?


Sono certa sia unico, sono certa sia quello che voglio.
Mentre, tranquilla, mi do da fare in cucina, lo sento che mi guarda.

                                                               Lo sento che medita:

“È questa colei alla quale devo apparire,
È, dunque, costei l’eletta, la donna con nere occhiaie e cicatrici

 

Che calcola le dosi, ritagli gli eccessi,

Aderendo alle regole della ricetta?

 

È costei la protagonista dell’Annunciazione?

Dio, che buffa!”

 

Ma scintilla, non smette, e credo che proprio me voglia.

Non mi dispiacerebbe fosse un osso o un bottone di madreperla.

 

 m’aspettavo un regalo, quest’anno.

Dopo tutto, sono viva solo per un accidente.

 

Sarei stata felice di riuscire a suicidarmi, quel giorno.

Ora ci sono questi veli, che brillano come tende.

 

Il satin diafano di una finestra di gennaio

Bianco come un velo di culla dal respiro mortale. Oh, avorio!

 

Deve essere una zanna, una colonna fantasma.

Non vedi che non m’importa quel che sia?

 

Non puoi darmela?

Non vergognarti – non fa nulla se è piccola.

 

Non essere avaro. Sono pronta per cose ben più enormi.

Sediamoci uno di fronte all’altro per ammirarne il luccichio.

 

Quanta brillantezza in queste sfaccettature.

Consumiamole dinanzi la nostra ultima cena in un piatto d’ospedale.

 

So perché non me la consegni.

Hai paura

 

Che il mondo esploda e con esso la tua testa

Di bronzo borchiata come uno scudo antico,

 

Meraviglia per i tuoi pronipoti.

Non temere, non accadrà.

 

La prenderò e mi metterò quieta da parte.

Non sentirai nessun fruscio, mente la scarto.

 

Nessun fiocco fa sciogliere, nessun grido d’esultanza.

Ma tu non mi credi discreta a tal punto.

 

Se solo sapessi quanto questi veli uccidono i miei giorni.

Tu li ritieni solo trasparenze, pura aria.

 

Ma, Dio mio, le nuvole sono bambagia.

Eserciti d’ossido di carbonio.

 

E io inalo pian piano dolcemente,

Riempiendomi le vene dell’invisibile, con i milioni

 

Di probabili moti che eliminano gli anni dalla mia futura vita.

Sei vestito d’argento per quest’occasione. O calcolatrice

 

Perfetta – nulla ti sfugge. Non ti è possibile consegnare qualcosa,

Intatta? Devi per forza stampare un marchio rosso su ciascun pezzo?

 

Devi uccidere tutto quello che ti capita?

C’è una sola cosa che oggi desidero, e solo tu puoi darmela.

 

Sta in piedi presso la mia finestra, grande come il cielo.

Esala dalle mie coltri, freddo morto centro

 

Dove vite spezzate si congelano e si irrigidiscono in storia.

Non inviarla per posta, un pezzo alla volta.

 

Non lasciare che venga a me a voce: avrei compiuto sessant’anni

e sarei incapace di usarla.

 

Piuttosto, lascia cadere il velo, .........il velo, ...........il velo.

Se fosse la morte

 

Ne ammirerei la profonda gravità, l’imperituro sguardo,

E saprei infine che eri serio.

 

Sarebbe allora tutto più solenne, un vero compleanno.

Il coltello non si curverebbe, ma mi penetrerebbe

 

Puro e chiaro come il pianto d’un bimbo,

E l’universo mi scivolerebbe al fianco.

 

 

 

[Traduzione di Erminia Passanannti, 1995.]

 

Un inedito


Senza titolo

  

 

Mi sporgo verso il cielo

E potrei caderci se

Qui non mi reggessero

Le intelligenti briglie della mia identità,

Il dolce nauseante odore femminile

Dietro le opache tende d'un profumato

Boudoir - pallida luce arancio.

Lenta, accurata grazia - seduzione,

Ossessione,  liquide secrezioni,

Desiderio che rotea in flussi mensili,

Sorrisi imbellettati e labbra languide,

Occhi annebbiati e carne bianca. Altro

Non e’ che adipe, latte di linfa,

Grasso su seni e cosce e, dentro,

solo il serpente torto delle ovaie,

Il tessuto nervoso dell'utero,

Ricettivo sempre, colmo del fluido

Attivo d' una passione opposta, dopo

L'apice, droga ipnotica,

L' eterno ricordare, il curvarsi,

Rilassando le membra. I frutti passivi

D'una passione morta marciscono, crescono

 

Nell'addome. Ella si disfa

In una fragrante e tiepida pozza. Musica

Non c'e’ piu’ dolce d'una traballante, cigolante

Carrozzina, del familiare

Odore della soffici feci brune indurite

Sui diaspri. Quanto in fretta si trasferisce

Il proprio Io a quello del bambino e, consolate

Da speranze e sogni vicari,

Volutamente si cede alla decadenza

Del corpo, all'eventuale passaggio

Della carne alla zolla, alla disintegrazione

Della mente, delle ghiandole creatrici di tutto

Quel che mai siamo state. Rido vedendo

Le gonnelline bianche, le fasce dorate,

Le luci rosse delle macchine, ferme

Lungo strade notturne,  immerse nelle furtive

Tenebre - le labbra, sottili e pallide, piene e

Affamate, s'incontrano, si dissetano al

Cieco incendio. Amputate gli organi sessuali.  

 

 

Nota critica e traduzione 

di Erminia Passannanti

  

Questa lirica inedita, composta probabilmente alla fine degli anni Quaranta, e’ stata di recente ritrovata da un libraio londinese, Rick Gekoski, in mezzo a un corpo di 100 pamphlet, pubblicati in Francia nel 1975. La poesia, consegnata a suo tempo dalla Plath all'editore JJ Dufour su un foglio a righe di tipo scolastico, appartiene alla produzione giovanile di questa poetessa che e’ certamente tra le piu’ grandi del Novecento.  L'unica copia esistente del pamphlet,  dal titolo Trois Poemes Inedits, contenente tre poesie manoscritte per sei pagine complessive,  e’ stata venduta da Gekoski per 5.750 sterline a un collezionista privato. Le altre copie furono probabilmente date al macero dall'editore stesso e di queste poesie non rimase traccia nemmeno nella bibliografia redatta dal marito della Plath, il poeta  inglese Ted HughesMalgrado l' evidente immaturita’ stilistica, la lirica qui tradotta, con il  suo accento sull'ambiguita’ e problematicita’ dell'eterna lotta tra i sessi, contiene, a livello embrionale, uno dei temi fondamentali della poetica plathiana di raccolte come The Colossus e Ariel, incentrata sull'analisi dell'identitˆ femminile come nevrosi, e sulla sessualita’ e la maternita’ considerate, da una certa distorta angolazione, come illusioni, ferite, mortificazioni dell'Io.

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